mercoledì 17 agosto 2011

Le parole che escludono

A cura di Roberto Di Ferdinando

Giuseppe Faso nel 2008 ha pubblicato il libro dal titolo “Lessico del razzismo democratico – Le parole che escludono”, edito da DeriveApprodi. Nel suo testo, Faso commenta articoli di giornali, servizi giornalistici, testi d legge, interventi di rappresentanti dello Stato, della Giustizia o di politici, evidenziando come oggigiorno molte parole o modalità linguistiche siano entrate nel linguaggio comune con un significato apparentemente neutro o perfino (dell’odiato) politicamente corretto ed invece abbiano un carico forte di discriminazione e di esclusione. Riporto di seguito alcuni esempi. Quando i telegiornali o la carta stampata riportano la notizia di reati commessi, è sempre riportata anche la nazionalità dell’autore del crimine, se questo non è italiano, invece la nazionalità è omessa quando la vittima dei reati non è un italiano, oppure se l’azione criminosa è commessa da un italiano ai danni di un suo connazionale. Ai fini della comunicazione della notizia del crimine, la specificazione della nazionalità del reo non aggiunge niente di più, se non il voler caricare il fatto di un gratuito e celato (non tanto celato) razzismo (loro contro noi).
Ancora, spesso gli organi di informazione definiscono i migranti che approdano sulle coste italiane con i barconi con il termine “disperati”. Questi migranti sono persone, che venendo da situazioni e condizioni di estrema povertà, e, forse, non possedendo più alcun bene materiale, hanno comunque la forza ed il prezioso bene di essere persone, di avere una propria ed unica ricchezza, in quanto individuo. Chi siamo noi per definire un’altra persona disperata?
La parola etnico è oggi di uso comune, dal libro di Faso: “Etnici sono diventati nei discorsi di senso comune i comportamenti diversi dai “nostri” (ma soprattutto i presunti tali), “etnie” (quando non “comunità”) sono definite le appartenenze nazionali […]Ma la tendenza a usare “etnico” è forte, e deriva dall’improponibilità del termine “razza” interdetto dopo Auschwitz. […] Screditato il termine (razza), per le nuove forme di razzismo ne era necessario un altro che permettesse la naturalizzazione delle identità storiche, sociali, culturali […] grazie all’uso disinvolto dei termini “etnia” e “cultura” il razzismo costruisce –universi più o meno separati, chiusi e incomunicabili- immediatamente identificati con gli individui che ne sarebbero portatori”. A completamento, ricordo che il termine razze fu inizialmente usato nell’Ottocento, per fini antropologici e sociali, per definire (classificare) culture diverse. Nel momento però in cui si determina una classifica si creano, all’interno di queste classifiche delle connotazioni (posizioni) di superiorità ed inferiorità.
Le leggi italiane 943/86 e 39/90 hanno introdotto il termine di extracomunitario, che è diventato d’uso da parte di tutti. Ovviamente il termine extra (fuori), ha un suo significato di esclusione, infatti se si definisce un fuori, ci deve essere un dentro più chiuso e connotato per cui più difficile per entrarvi a far parte. Il legislatore italiano, accortosi dell’effettiva forza escludente della parola ha posto rimedio con la legge 40/98 sull’immigrazione: “nelle prime righe della legge – scrive Faso – si avverte infatti che i cittadini appartenenti a Stati non membri della comunità europea verranno definiti Stranieri”. Sono passati 13 anni dall’entrata in vigore di quella legge, oggi le pubblicazioni ufficiali e gli organi di informazioni continuano ad usare esclusivamente il termine extracomunitario.
Un altro termine usato con una valenza discriminante ed ad escludere è “integrazione”. Scrive Faso in riferimento ad integrazione: “non se ne rendono conto i più, ma intendono “assimilazione. Come si dice “cultura” o “etnia” e s’intende “razza”, si dice “integrazione” e si intende “assimilazione”.[…] Non si parla mai di una società che si ricompone a un livello più complesso i suoi settori, e perciò si integra, ma l’immigrato è sempre l’oggetto di una integrazione in un ambito preesistente, di cui non si immagina una modificazione, un processo, quello sì, di inclusione”.
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2 commenti:

Francesco Della Lunga ha detto...

Le parole non sono prive di significato anche se oggi si tende ad annacquare tutti i concetti semantici, ma hanno avuto ed hanno ancora oggi un significato ben preciso. Sono una delle modalità più evolute di una specie, quella umana, per comunicare fra i propri simili, ma quasi mai sono neutre e, come dice Roberto, hanno anche ripercussioni profonde a livello di comportamento o reazione di chi ne viene investito o ne è oggetto. Per rimanere un po’ al contesto del commento di Roberto al libro di Giuseppe Faso le parole possono essere anche considerate dei veri e propri "recinti" che quindi includono e, allo stesso tempo, escludono. Il libro di questo autore è ad ogni modo interessante. Probabilmente per i cultori della materia è un testo conosciuto, più difficile per il "resto del mondo" che però dovrebbe trovare di un certo interesse perché la concettualizzazione di termini escludenti o includenti pare un connotato assai tipico delle società occidentali. Credo che questo affondi nella nostra cultura. Le classificazioni del resto non sono neutre, ma si associano inevitabilmente ad attribuire ad esse una scala di valori più o meno positiva. Non riusciamo quindi ad essere neutri o comunque a mantenere lontano il concetto di bene o male perché a mio avviso questo si associa con l'esperienza terrena, ovvero la vita e la morte. E siccome tendiamo molto spesso a far coincidere il bene con la vita ed il male con la morte, questo paragone ci sembra calzante. Sembrerebbe però che la connotazione positiva o negativa che si dà, attraverso le parole ed i concetti che esse esprimono ad altre persone o a gruppi di persone, sia connaturata un po’ a tutti i gruppi di esseri umani. D’altra parte la storia del mondo è contrassegnata da lotte e guerre fra gruppi di persone, senza dover passare dal Novecento dove la parola “razza”, termine usato per connotare gruppi di individui accomunati da determinate caratteristiche, ha assunto un ruolo dominante fino a sfociare nelle tragedie del nazismo e dei fascismi. La più o meno consapevolezza che ci accompagna quando utilizziamo certi termini è assai però più che mai attuale perché le nostre società oggi sono aperte ad un flusso quasi incessante di individui, con il loro bagaglio di culture e di esperienze diverse. Bisogna quindi lavorare su noi stessi per annullare gli effetti quali in generale la paura del diverso che purtroppo distrugge la convivenza civile e la nostra quotidianità. Questo perché è evidente che alcuni atteggiamenti che non saprei definire ma che sono connaturati nella nostra identità, ci portano inevitabilmente ad escludere. E quindi bisogna costruire attorno a questi stimoli all’esclusione del “diverso” un approccio che sia esattamente l’opposto e che vada verso l’accoglienza. Ma è un percorso lungo e difficile al quale non sempre siamo preparati. Diceva Mohandas Karamchand Gandhi (1869 – 1948): “Tutte le mie azioni hanno principio dal mio inalienabile amore per l’umanità. Non ho conosciuto alcuna distinzione tra parenti ed estranei, compatrioti e stranieri, bianchi e genti di colore, indù ed indiani di altre fedi, fossero mussulmani, cristiani, parsi o ebrei. Posso dire che il mio cuore non è stato capace di fare alcuna di queste distinzioni. Grazie ad un lungo processo di disciplina e preghiera ho cessato da più di quarant’anni di odiare chicchessia”.

Roberto ha detto...

Come avevamo auspicato....
Dall'archivio del Corriere della Sera.
Savona L' iniziativa del procuratore. I carabinieri: noi li chiamiamo extraunionisti
"Il magistrato che cancella la parola extracomunitario
Circolare agli agenti: è razzismo. La filologa: giusto"
L'articolo completo di trova al seguente indirizzo web:

http://archiviostorico.corriere.it/2011/settembre/08/magistrato_che_cancella_parola_extracomunitario_co_9_110908037.shtml

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