mercoledì 13 luglio 2011

Racconto di un prigioniero italiano in URSS

(fonte: Microstoria), a cura di Roberto Di Ferdinando

Togliatti era stato soprannominato il “Migliore”, perché gli si riconoscevano molte capacità politiche tali da aver portato il PCI a numeri elettorali altissimi. Nasce così il mito di Togliatti, che diventa, o meglio è stato fatto diventare per una certa parte dell’Italia, un politico illuminato che aveva a cuore principalmente le lavoratrici ed i lavoratori . In Italia monumenti e strade gli sono stati dedicati ed intitolati, forse oltre i suoi effettivi meriti. Personalmente bastano le righe che tra poco andrò a citare per non credere a questo mito del Migliore. Il 15 febbraio 1943 Togliatti scriveva a Vincenzo Bianco, funzionario del Komintern () questa lettera: “[…] l’altra questione sulla quale sono in disaccordo con te è quella del trattamento dei prigionieri. […] la nostra posizione di principio rispetto agli eserciti che hanno invaso l’Unione Sovietica è stata definita da Stalin, e non vi è più niente da dire. Nella pratica, però, se un buon numero di prigionieri morirà, in conseguenza delle dure condizioni di fatto, non ci trovo assolutamente niente da dire […] Il fatto che per migliaia e migliaia di famiglie la guerra di Mussolini, e soprattutto la spedizione contro la Russia, si concludano con una tragedia, con un lutto personale, è il migliore, è il più efficace degli antidoti.” Togliatti auspicò quindi la morte dei prigionieri italiani, che sebbene ormai resi innocui nei campi di concentramento russi, furono sacrificati, a guerra conclusa, per motivi politici. I prigionieri italiani in Russia dal 22 giugno 1941 al 1° marzo 1944 furono 43.674, di questi solo 10.032 tornarono in Italia. Enzo Nelli, ex combattente dell’esercito italiano, poi partigiano, prigioniero dei tedeschi dopo l’8 settembre, ed anche reduce dei campi di concentramento sovietici, oggi 89enne, ha raccontato alla rivista toscana di Microstoria in che condizioni i prigionieri italiani furono costretti a vivere, secondo anche le disposizioni del compagno Togliatti.
Nelli insieme ad altri prigionieri italiani fu condotto in treno in Siberia a lavorare nelle miniere di carbone. Il viaggio durò quattro mesi patendo fame, sete e freddo. Il campo di prigioneria si trovava circondato da neve e ghiacci (la temperatura arrivò fino a -55 gradi), impossibile pensare di scappare da quel luogo. “I prigionieri erano costretti a dormire sui pancali di legno. Per mangiare, su 150 litri di acqua, ci mettevano 10 kg di stoccafisso e 10 kg di patate secche . Ad ognuno toccavano 5 grammi di pane di segale nero al giorno insieme a questa brodaglia. […] Fra noi c’era gente che la notte andava al gabinetto e non tornava più. Venivano uccise a palate… gli venivano tagliate le gambe e buttate sulla brace per sfamarsi. Alcuni giorni mancavano venti, trenta internati all’appello”. Il 26 gennaio 1946 le autorità sovietiche annunciarono a Nelli ed ai suoi compagni la prossima liberazione, “ci fecero fare il bagno dopo due anni, ci buttarono su una tradotta ed arrivammo a Novosibirsk il 30 marzo 1946. Ci fecero scendere e ci portarono in un altro campo di concentramento […]. Fummo impiegati nella fabbricazione di lastroni di ghiaccio. Ci tennero fino alla fine di aprile. Poi partimmo per Mosca dove arrivammo ai primi di maggio. Ci fecero lavorare, togliere bombe dai sotterranei della metropolitana. Da qui, poi, ci muovemmo in direzione di Kiev e Odessa, dove ci portarono al porto. C’era una nave italiana. Potevamo partire, invece la caricarono di carbone e ci spedirono di nuovo in un campo di concentramento, un ex ospedale distrutto dai bombardamenti. Dovemmo aspettare il referendum del 2 giugno prima di poter tornare. C’era chi temeva che votassimo per la Monarchia. Rientrammo il 12 luglio 1946 dall’Ungheria, in Austria e quindi, presso il Tarvisio fummo consegnati alle autorità italiane”. Contemporaneamente nasceva la Repubblica ed il mito del Migliore.
RDF

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