martedì 24 aprile 2012

Geopolitica del Corno d'Africa. Intervista di Recinto Internazionale a Pietro Batacchi, analista del CESI. A cura di Francesco Della Lunga


Prosegue l’osservatorio di Recinto Internazionale verso la situazione politica nella regione del Corno d’Africa. Come i nostri amici lettori ricorderanno, il nostro blog sta dedicando da tempo attenzione a quello che accade in questo spicchio d’Africa, un po’ per ragioni storiche, un po’ per ragioni economiche. Da un punto di vista storico il nostro Paese ha avuto per lungo tempo interessi di carattere coloniale (Eritrea e Somalia soprattutto nel periodo prefascista, per poco più di cinque anni in Etiopia durante il ventennio fascista, 1936 - 1941). Dopo il Trattato di Pace del 1947 l’Italia perse ogni rapporto di carattere amministrativo e territoriale con le colonie prefasciste (Eritrea appunto e Somalia), nonostante gli sforzi fatti per mantenere almeno influenza su questi paesi. L’Etiopia era già tornata indipendente. Sulla Somalia questi sforzi diplomatici vennero premiati con la concessione dell’Amministrazione Fiduciaria da parte delle Nazioni Unite e per il periodo 1950 – 1960 (Amministrazione Fiduciaria Italiana in Somalia – AFIS). Con la Somalia il nostro Paese mantenne un legame duraturo, soprattutto grazie agli interessi economici che rimanevano forti e per la volontà di tutte le forze politiche italiane. I rapporti rimasero saldi anche dopo l’avvento del dittatore somalo Mohamed Siyad Barre che già all’inizio degli anni ’70 era riuscito ad abbattere la fragile repubblica somala. Dopo la disintegrazione di questo Stato, avvenuta con la caduta di Barre nel 1990 l’Italia ha cercato, in virtù della propria presenza storica, di mantenere un legame con il paese e di favorire i vari progetti di pacificazione, tutti puntualmente naufragati e forse nessuno dei quali attuato con un minimo di basi solide. Anche sull’Etiopia e sull’Eritrea, soprattutto su quest’ultimo Paese, l’attenzione dei nostri governi è stata alterna anche se continua. Dopo la chiusura del conflitto mondiale l’Eritrea divenne una delle province della più grande Etiopia e tale è rimasta fino al 1991, anno in cui si chiuse la lotta di liberazione da parte eritrea con la nascita di uno Stato indipendente (proclamato nel 1993). Da un punto di vista economico, Eritrea e Somalia a parte, l’Etiopia è entrata nel novero dei paesi guida, a livello di crescita, di un folto gruppo di paesi dell’Africa sub sahariana, con crescita del PIL a due cifre negli ultimi dieci anni. In un periodo di contrazione degli scambi internazionali e di inquietudini economiche dettate dai grandi fenomeni della globalizzazione, dell’apertura delle frontiere, dell’abbattimento delle barriere doganali, della nascita di altre realtà geopolitiche (BRIC ad esempio), anche l’Africa è destinata ad assumere un ruolo più importante perché rimane ancora uno degli ultimi mercati da conquistare e da contendersi. E l’Europa pacificata potrà giocare un ruolo ancora importante nello sviluppo di questi paesi, con un ventaglio di azioni che comprendono lo sviluppo di sistemi democratici, l’apertura agli scambi internazionali, la crescita economica e sociale. Almeno questo è quello che auspichiamo. Gli ultimi dieci anni sono stati importanti da questo punto di vista, ma ancora sono necessari processi socio politici che, nella migliore delle ipotesi non si concretizzeranno prima di un arco di venti – trenta anni. C’è dunque ancora molto da fare (sulla crescita economica di queste regioni si veda anche un nostro intervento su RI – http://www.recintointernazionale.blogspot.it/2012/01/la-nuova-frontiera-dello-sviluppo.html ).

Uno dei nodi principali per la crescita pacifica della regione rimane comunque il conflitto fra Etiopia ed Eritrea, oltre alla normalizzazione in Somalia. Su questi aspetti, il nostro blog ha cercato di dare delle informazioni sul conflitto fra Asmara ed Addis Abeba, ancora oggi irrisolto, sulla situazione della Somalia, con particolare attenzione ai fenomeni della pirateria e della guerra fra clan, toccando anche le recenti vicende relative al periodo di scontro fra il TFG (Transitional Federation Government) e le forze delle Corti Islamiche prima, e degli Al Shabab dopo.

Oggi abbiamo l’onore ed il piacere di ospitare l’opinione di uno dei più autorevoli osservatori di politica internazionale, il Dott. Pietro Batacchi, analista presso il CESI (Centro Studi Internazionali) di Roma (www.cesi-italia.org). A Pietro abbiamo chiesto di ripercorrere brevemente lo sviluppo della crisi fra Etiopia ed Eritrea negli ultimi dieci anni (il conflitto fra questi due paesi si è ufficialmente chiuso nel 2000, ma la tensione è pronta a riesplodere, vedremo come) e le relazioni fra questi due paesi con la Somalia, oggi suddivisa in tre aree di cui due già autoproclamatesi indipendenti (Somaliland, ex Somalia Britannica, Puntland, ex Somalia Italiana con Mogadiscio come centro principale), reale elemento di destabilizzazione di tutto il Corno d’Africa, con ripercussioni sui paesi vicini, Gibuti, Sudan, Kenya, Uganda.

RI: caro Pietro, ci racconti brevemente qual è lo “stato dell’arte” del conflitto fra Etiopia ed Eritrea? Su questa parte di mondo pare essere calata una cortina di silenzio, sui giornali nazionali non se ne parla, la questione è relegata in alcune pubblicazioni ad uso degli specialisti, ma pensiamo che questa regione possa ancora avere un interesse soprattutto per noi. E’ vero che la tensione fra i due paesi sta rinascendo? E’ da attribuire alle presunte voci sulla presenza di fondamentalisti sul territorio eritreo o c’è dell’altro, tipo la mai irrisolta questione dell’accesso al mare da parte di Addis Abeba?

PB: Il problema principale è dato dal fatto che questi paesi hanno in corso una sorta di guerra fredda, non si combattono convenzionalmente, ci sono alcune scaramucce di confine, ma alla fine ci si combatte per procura, gli Etiopi da un lato sostenendo il Governo di Transizione somalo, mentre l’Eritrea, dall’altro, dando sostegno ai gruppi fondamentalisti. La questione può essere inquadrata nel senso di insicurezza eritrea rispetto ad un paese molto più grande (5 milioni di abitanti in Eritrea, circa 80 in Etiopia) che con l’indipendenza ha chiuso l’accesso al mare. In questa ottica per l’Etiopia è fondamentale garantirsi l’accesso al mare soprattutto grazie al controllo del territorio somalo, specie nella regione di Mogadiscio il cui porto dovrebbe diventare il principale sbocco al mare di Addis Abeba.

RI: Per quale ragione il regime di Afewerki è così isolato da un punto di vista internazionale? Quali azioni si stanno facendo per fare si che questo paese possa essere “riammesso” nella comunità internazionale? In fondo, per pacificare un’area così vasta si dovrebbe cercare di “includere” piuttosto che “separare”, come si è fatto con le sanzioni ad Asmara..

PB: L’Eritrea ha fatto una scelta da stato “paria” dopo la guerra chiusa nel 2000 per attutire questo senso di insicurezza. Naturalmente si sono avvicinati a quelli che sono avversari dell’Etiopia e poiché quest’ultima è inserita a pieno titolo nell’ambito dell’influenza occidentale, gli eritrei hanno mosso passi di avvicinamento all’Iran, tanto per fare un esempio. Il regime di Afewerki è poi di tipo personalistico che vive in mobilitazione permanente in funzione del conflitto con l’Etiopia. In queste condizioni è davvero difficile che questo paese, in tempi recenti, possa riavvicinarsi alla comunità internazionale.

RI: Ci pare che in questa regione i processi democratici siano ancora lontani dallo svilupparsi. Sia in Eritrea che in Etiopia i regimi appaiono saldi. C’è speranza da questo punto di vista? Qual è la situazione reale in Etiopia, visto che il Paese è uno stato federale che unisce alcune regioni da sempre in odore di separazione (Ogaden, Oromia)? Questi processi di separazione vengono realmente alimentati da Asmara?

PB: Andiamo con ordine. Punto primo, la democrazia. La democrazia di massa, come la concepiamo noi, attualmente mal si presta ad essere trapiantata in contesti dove prevalgono le logiche di clan piuttosto che il concetto di cittadinanza. E’ una situazione abbastanza tipica in Africa, come si può riscontrare in tutti i casi in cui i processi di decolonizzazione hanno generato situazioni di quasi totale instabilità. Anche in molte regioni dell’Asia la situazione è identica. Gli stati nazionali come li abbiamo strutturati noi sono tipici della nostra cultura e non necessariamente si sposano con culture che ancora affondano le loro radici nei rapporti clanici. Sul secondo punto basta leggere i rapporti dell’ONU che parlano di sostegno eritreo ai gruppi indipendentisti presenti in Etiopia al fine di destabilizzare il paese. Sempre, come dicevo, nella logica del conflitto permanente fra i due paesi.

RI: L’Etiopia pare aver intrapreso un percorso virtuoso verso la crescita economica. Le recenti statistiche internazionali riportano una crescita del PIL, media dell’ultimo decennio, a due cifre. Questo, secondo alcune teorie economiche (Rostow), potrebbe far pensare che il Paese ha raggiunto il cosiddetto “take off” verso lo sviluppo industriale. Questo processo può essere messo a repentaglio da una recrudescenza del conflitto?

PB: Sul processo di industrializzazione dell’Etiopia a mio avviso è opportuno rimanere più cauti. La crescita del PIL come dicono le statistiche è facilmente riscontrabile quando si parte da paesi che hanno dotazioni infrastrutturali ed industriali quasi..inesistenti.. Ma per un paese così grande come l’Etiopia con il livello di povertà che lo contraddistingue è ancora molto lontano da un livello di sviluppo accettabile. Inoltre, per fare in modo che un paese come l’Etiopia possa realmente decollare, almeno da un punto di vista economico, è necessario che le infrastrutture possano essere realizzate e che esista un accesso al mare in mancanza del quale il processo è necessariamente rallentato. Infine, come dicevo prima, anche i processi democratici potrebbero aiutare, ma su questo punto siamo ancora molto lontani.

RI: La presenza di Pechino nella regione è ormai un fatto consolidato. La Cina sta costruendo il paese, secondo diversi osservatori. Strade e palazzi sono quasi totalmente appannaggio di ditte cinesi. E sono presenti sia in Eritrea che in Etiopia. Prima o poi saranno costretti a schierarsi, la loro presenza può far girare il pendolo a favore di uno o l’altro di questi paesi?

PB: Il comportamento del governo cinese sulla questione non è particolarmente rilevante. I cinesi non si interessano delle loro beghe interne, ma sono interessati unicamente ad acquisire commesse per supportare il loro sviluppo, non è più una questione di colore politico, come ormai sappiamo. I cinesi si muovono così: entrano in un paese, acquisiscono commesse, portano la loro manodopera. Non c’è neppure molto spazio per favorire l’impiego di personale locale.

RI: Tornando allo scenario politico dell’area, qual è lo stato attuale dei rapporti fra Asmara, Addis Abeba ed il Governo di Transizione che, almeno ufficialmente, governa a Mogadiscio? Gli interventi delle truppe di Addis Abeba nel 2006 e quelli più recenti del 2011 hanno dato qualche contributo alla pacificazione oppure non sono serviti a niente?

PB: La “coalition of the willing” fra Etiopia, Kenya, Uganda ecc. Anche se ha avuto successi military important, non sono stati tali da consolidare la forza del Governo di Transizione che, a tutti gli effetti, senza la presenza della forza internazionale non conterebbe nulla. Non controlla neppure la capitale e senza la presenza della missione di pace non avrebbe potuto neppure rientrare nel paese. E’ davvero molto difficile che il processo di pacificazione possa avere successo a breve termine.

RI: Gli Stati Uniti, a tuo avviso, si stanno muovendo nella giusta direzione?

PB: Gli USA si sono indirizzati verso l’Etiopia come soggetto a cui delegare la gestione dei loro interessi che in questo momento coincidono. La lotta al terrorismo è ancora in cima all’agenda politica di Washington. Quindi, appoggiare l’Etiopia per la lotta ad Al Shabab ed ai gruppuscoli legati ad Al Quaeda rientra a pieno titolo in questa strategia. D’altra parte è bene ricordare che l’Etiopia ha sempre avuto storicamente ottimi rapporti con gli Stati Uniti, tranne che nel periodo di Menghistù. A rafforzare questo rapporto va considerata anche la presenza di Israele che da sempre ha avuto rapporti importanti con Addis Abeba. Questo, unico forse nel suo genere anche nel periodo della dittatura del Negus rosso. Se si gira per le strade di Addis Abeba non è difficile scorgere la presenza di numerosi contractors statunitensi ed israeliani.

RI: una domanda su un questione a nostro avviso di importanza, per comprendere meglio il quadro geopolitico degli Stati che si muovono in quest’area. Addis Abeba aveva aperto un fronte anche con i paesi del basso Nilo per il controllo delle acque del Nilo Azzurro, ci sono state delle evoluzioni su questo aspetto?

PB: Non ci sono particolari novità su questo, la situazione è ancora così, la questione del controllo delle acque del fiume è importante per i paesi del basso Nilo (Sudan ed Egitto principalmente) e continua ad essere uno degli elementi principali dell’agenda internazionale dei paesi interessati.

RI: un’ultima domanda: ma l’Italia può ancora avere un ruolo in tutto questo scenario oppure la nostra presenza è irrilevante?

PB: La nostra presenza purtroppo non è molto rilevante. Nonostante il nostro passato non siamo ancora in grado di imprimere delle svolte di rilievo.






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