Prosegue l’osservatorio di Recinto Internazionale verso la
situazione politica nella regione del Corno d’Africa. Come i nostri amici
lettori ricorderanno, il nostro blog sta dedicando da tempo attenzione a quello
che accade in questo spicchio d’Africa, un po’ per ragioni storiche, un po’ per
ragioni economiche. Da un punto di vista storico il nostro Paese ha avuto per
lungo tempo interessi di carattere coloniale (Eritrea e Somalia soprattutto nel
periodo prefascista, per poco più di cinque anni in Etiopia durante il ventennio
fascista, 1936 - 1941). Dopo il Trattato di Pace del 1947 l’Italia perse ogni
rapporto di carattere amministrativo e territoriale con le colonie prefasciste
(Eritrea appunto e Somalia), nonostante gli sforzi fatti per mantenere almeno influenza
su questi paesi. L’Etiopia era già tornata indipendente. Sulla Somalia questi
sforzi diplomatici vennero premiati con la concessione dell’Amministrazione
Fiduciaria da parte delle Nazioni Unite e per il periodo 1950 – 1960
(Amministrazione Fiduciaria Italiana in Somalia – AFIS). Con la Somalia il
nostro Paese mantenne un legame duraturo, soprattutto grazie agli interessi
economici che rimanevano forti e per la volontà di tutte le forze politiche
italiane. I rapporti rimasero saldi anche dopo l’avvento del dittatore somalo
Mohamed Siyad Barre che già all’inizio degli anni ’70 era riuscito ad abbattere
la fragile repubblica somala. Dopo la disintegrazione di questo Stato, avvenuta
con la caduta di Barre nel 1990 l’Italia ha cercato, in virtù della propria
presenza storica, di mantenere un legame con il paese e di favorire i vari
progetti di pacificazione, tutti puntualmente naufragati e forse nessuno dei
quali attuato con un minimo di basi solide. Anche sull’Etiopia e sull’Eritrea,
soprattutto su quest’ultimo Paese, l’attenzione dei nostri governi è stata
alterna anche se continua. Dopo la chiusura del conflitto mondiale l’Eritrea
divenne una delle province della più grande Etiopia e tale è rimasta fino al
1991, anno in cui si chiuse la lotta di liberazione da parte eritrea con la
nascita di uno Stato indipendente (proclamato nel 1993). Da un punto di vista
economico, Eritrea e Somalia a parte, l’Etiopia è entrata nel novero dei paesi
guida, a livello di crescita, di un folto gruppo di paesi dell’Africa sub
sahariana, con crescita del PIL a due cifre negli ultimi dieci anni. In un
periodo di contrazione degli scambi internazionali e di inquietudini economiche
dettate dai grandi fenomeni della globalizzazione, dell’apertura delle
frontiere, dell’abbattimento delle barriere doganali, della nascita di altre
realtà geopolitiche (BRIC ad esempio), anche l’Africa è destinata ad assumere
un ruolo più importante perché rimane ancora uno degli ultimi mercati da
conquistare e da contendersi. E l’Europa pacificata potrà giocare un ruolo
ancora importante nello sviluppo di questi paesi, con un ventaglio di azioni
che comprendono lo sviluppo di sistemi democratici, l’apertura agli scambi
internazionali, la crescita economica e sociale. Almeno questo è quello che
auspichiamo. Gli ultimi dieci anni sono stati importanti da questo punto di
vista, ma ancora sono necessari processi socio politici che, nella migliore
delle ipotesi non si concretizzeranno prima di un arco di venti – trenta anni.
C’è dunque ancora molto da fare (sulla crescita economica di queste regioni si
veda anche un nostro intervento su RI – http://www.recintointernazionale.blogspot.it/2012/01/la-nuova-frontiera-dello-sviluppo.html
).
Uno dei nodi principali per la crescita pacifica della
regione rimane comunque il conflitto fra Etiopia ed Eritrea, oltre alla
normalizzazione in Somalia. Su questi aspetti, il nostro blog ha cercato di
dare delle informazioni sul conflitto fra Asmara ed Addis Abeba, ancora oggi
irrisolto, sulla situazione della Somalia, con particolare attenzione ai
fenomeni della pirateria e della guerra fra clan, toccando anche le recenti
vicende relative al periodo di scontro fra il TFG (Transitional Federation
Government) e le forze delle Corti Islamiche prima, e degli Al Shabab dopo.
Oggi abbiamo l’onore ed il piacere di ospitare l’opinione di
uno dei più autorevoli osservatori di politica internazionale, il Dott. Pietro
Batacchi, analista presso il CESI (Centro Studi Internazionali) di Roma (www.cesi-italia.org). A Pietro abbiamo
chiesto di ripercorrere brevemente lo sviluppo della crisi fra Etiopia ed
Eritrea negli ultimi dieci anni (il conflitto fra questi due paesi si è
ufficialmente chiuso nel 2000, ma la tensione è pronta a riesplodere, vedremo
come) e le relazioni fra questi due paesi con la Somalia, oggi suddivisa in tre
aree di cui due già autoproclamatesi indipendenti (Somaliland, ex Somalia
Britannica, Puntland, ex Somalia Italiana con Mogadiscio come centro
principale), reale elemento di destabilizzazione di tutto il Corno d’Africa,
con ripercussioni sui paesi vicini, Gibuti, Sudan, Kenya, Uganda.
RI: caro Pietro, ci racconti brevemente qual è lo “stato
dell’arte” del conflitto fra Etiopia ed Eritrea? Su questa parte di mondo pare
essere calata una cortina di silenzio, sui giornali nazionali non se ne parla,
la questione è relegata in alcune pubblicazioni ad uso degli specialisti, ma
pensiamo che questa regione possa ancora avere un interesse soprattutto per
noi. E’ vero che la tensione fra i due paesi sta rinascendo? E’ da attribuire
alle presunte voci sulla presenza di fondamentalisti sul territorio eritreo o
c’è dell’altro, tipo la mai irrisolta questione dell’accesso al mare da parte
di Addis Abeba?
PB: Il problema principale è dato dal fatto che questi paesi hanno in corso
una sorta di guerra fredda, non si combattono convenzionalmente, ci sono alcune
scaramucce di confine, ma alla fine ci si combatte per procura, gli Etiopi da
un lato sostenendo il Governo di Transizione somalo, mentre l’Eritrea, dall’altro,
dando sostegno ai gruppi fondamentalisti. La questione può essere inquadrata
nel senso di insicurezza eritrea rispetto ad un paese molto più grande (5
milioni di abitanti in Eritrea, circa 80 in Etiopia) che con l’indipendenza ha
chiuso l’accesso al mare. In questa ottica per l’Etiopia è fondamentale
garantirsi l’accesso al mare soprattutto grazie al controllo del territorio
somalo, specie nella regione di Mogadiscio il cui porto dovrebbe diventare il
principale sbocco al mare di Addis Abeba.
RI: Per quale ragione il regime di Afewerki è così isolato
da un punto di vista internazionale? Quali azioni si stanno facendo per fare si
che questo paese possa essere “riammesso” nella comunità internazionale? In
fondo, per pacificare un’area così vasta si dovrebbe cercare di “includere”
piuttosto che “separare”, come si è fatto con le sanzioni ad Asmara..
PB: L’Eritrea ha fatto una scelta da stato “paria” dopo la guerra
chiusa nel 2000 per attutire questo senso di insicurezza. Naturalmente si sono
avvicinati a quelli che sono avversari dell’Etiopia e poiché quest’ultima è
inserita a pieno titolo nell’ambito dell’influenza occidentale, gli eritrei
hanno mosso passi di avvicinamento all’Iran, tanto per fare un esempio. Il
regime di Afewerki è poi di tipo personalistico che vive in mobilitazione
permanente in funzione del conflitto con l’Etiopia. In queste condizioni è
davvero difficile che questo paese, in tempi recenti, possa riavvicinarsi alla
comunità internazionale.
RI: Ci pare che in questa regione i processi democratici
siano ancora lontani dallo svilupparsi. Sia in Eritrea che in Etiopia i regimi
appaiono saldi. C’è speranza da questo punto di vista? Qual è la situazione
reale in Etiopia, visto che il Paese è uno stato federale che unisce alcune
regioni da sempre in odore di separazione (Ogaden, Oromia)? Questi processi di
separazione vengono realmente alimentati da Asmara?
PB: Andiamo con ordine. Punto primo, la democrazia. La democrazia di
massa, come la concepiamo noi, attualmente mal si presta ad essere trapiantata
in contesti dove prevalgono le logiche di clan piuttosto che il concetto di
cittadinanza. E’ una situazione abbastanza tipica in Africa, come si può
riscontrare in tutti i casi in cui i processi di decolonizzazione hanno
generato situazioni di quasi totale instabilità. Anche in molte regioni dell’Asia
la situazione è identica. Gli stati nazionali come li abbiamo strutturati noi
sono tipici della nostra cultura e non necessariamente si sposano con culture
che ancora affondano le loro radici nei rapporti clanici. Sul secondo punto
basta leggere i rapporti dell’ONU che parlano di sostegno eritreo ai gruppi
indipendentisti presenti in Etiopia al fine di destabilizzare il paese. Sempre,
come dicevo, nella logica del conflitto permanente fra i due paesi.
RI: L’Etiopia pare aver intrapreso un percorso virtuoso
verso la crescita economica. Le recenti statistiche internazionali riportano
una crescita del PIL, media dell’ultimo decennio, a due cifre. Questo, secondo
alcune teorie economiche (Rostow), potrebbe far pensare che il Paese ha
raggiunto il cosiddetto “take off” verso lo sviluppo industriale. Questo
processo può essere messo a repentaglio da una recrudescenza del conflitto?
PB: Sul processo di industrializzazione dell’Etiopia a mio avviso è
opportuno rimanere più cauti. La crescita del PIL come dicono le statistiche è
facilmente riscontrabile quando si parte da paesi che hanno dotazioni
infrastrutturali ed industriali quasi..inesistenti.. Ma per un paese così
grande come l’Etiopia con il livello di povertà che lo contraddistingue è
ancora molto lontano da un livello di sviluppo accettabile. Inoltre, per fare
in modo che un paese come l’Etiopia possa realmente decollare, almeno da un
punto di vista economico, è necessario che le infrastrutture possano essere
realizzate e che esista un accesso al mare in mancanza del quale il processo è
necessariamente rallentato. Infine, come dicevo prima, anche i processi
democratici potrebbero aiutare, ma su questo punto siamo ancora molto lontani.
RI: La presenza di Pechino nella regione è ormai un fatto
consolidato. La Cina sta costruendo il paese, secondo diversi osservatori.
Strade e palazzi sono quasi totalmente appannaggio di ditte cinesi. E sono
presenti sia in Eritrea che in Etiopia. Prima o poi saranno costretti a
schierarsi, la loro presenza può far girare il pendolo a favore di uno o
l’altro di questi paesi?
PB: Il comportamento del governo cinese sulla questione non è
particolarmente rilevante. I cinesi non si interessano delle loro beghe
interne, ma sono interessati unicamente ad acquisire commesse per supportare il
loro sviluppo, non è più una questione di colore politico, come ormai sappiamo.
I cinesi si muovono così: entrano in un paese, acquisiscono commesse, portano
la loro manodopera. Non c’è neppure molto spazio per favorire l’impiego di
personale locale.
RI: Tornando allo scenario politico dell’area, qual è lo
stato attuale dei rapporti fra Asmara, Addis Abeba ed il Governo di Transizione
che, almeno ufficialmente, governa a Mogadiscio? Gli interventi delle truppe di
Addis Abeba nel 2006 e quelli più recenti del 2011 hanno dato qualche
contributo alla pacificazione oppure non sono serviti a niente?
PB: La “coalition of the willing” fra Etiopia, Kenya, Uganda ecc. Anche
se ha avuto successi military important, non sono stati tali da consolidare la
forza del Governo di Transizione che, a tutti gli effetti, senza la presenza
della forza internazionale non conterebbe nulla. Non controlla neppure la
capitale e senza la presenza della missione di pace non avrebbe potuto neppure
rientrare nel paese. E’ davvero molto difficile che il processo di
pacificazione possa avere successo a breve termine.
RI: Gli Stati Uniti, a tuo avviso, si stanno muovendo nella
giusta direzione?
PB: Gli USA si sono indirizzati verso l’Etiopia come soggetto a cui
delegare la gestione dei loro interessi che in questo momento coincidono. La
lotta al terrorismo è ancora in cima all’agenda politica di Washington. Quindi,
appoggiare l’Etiopia per la lotta ad Al Shabab ed ai gruppuscoli legati ad Al
Quaeda rientra a pieno titolo in questa strategia. D’altra parte è bene
ricordare che l’Etiopia ha sempre avuto storicamente ottimi rapporti con gli
Stati Uniti, tranne che nel periodo di Menghistù. A rafforzare questo rapporto
va considerata anche la presenza di Israele che da sempre ha avuto rapporti
importanti con Addis Abeba. Questo, unico forse nel suo genere anche nel
periodo della dittatura del Negus rosso. Se si gira per le strade di Addis
Abeba non è difficile scorgere la presenza di numerosi contractors statunitensi
ed israeliani.
RI: una domanda su un questione a nostro avviso di
importanza, per comprendere meglio il quadro geopolitico degli Stati che si
muovono in quest’area. Addis Abeba aveva aperto un fronte anche con i paesi del
basso Nilo per il controllo delle acque del Nilo Azzurro, ci sono state delle
evoluzioni su questo aspetto?
PB: Non ci sono particolari novità su questo, la situazione è ancora
così, la questione del controllo delle acque del fiume è importante per i paesi
del basso Nilo (Sudan ed Egitto principalmente) e continua ad essere uno degli
elementi principali dell’agenda internazionale dei paesi interessati.
RI: un’ultima domanda: ma l’Italia può ancora avere un ruolo
in tutto questo scenario oppure la nostra presenza è irrilevante?
PB: La nostra presenza purtroppo non è molto rilevante. Nonostante il
nostro passato non siamo ancora in grado di imprimere delle svolte di rilievo.
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