domenica 18 settembre 2011

Storia - Il brigantaggio contro l'Unità d'Italia

I 150 anni dell'Unità d'Italia





Articolo pubblicato nei numeri di marzo ed aprile 2003 di Dossier & Intelligence
Testo di Roberto Di Ferdinando

Il 13 febbraio 1861 il re delle Due Sicilie, Francesco II di Borbone, abbandonava Gaeta, cinta d’assedio dai piemontesi, e s’imbarcava per Civitavecchia, da dove poi sarebbe giunto a Roma, ottenendo asilo da Papa Pio IX. Francesco II perdeva così ciò che restava dei propri domini, le regioni meridionali della penisola ita-liana, infatti, erano definitivamente annesse al regno d’Italia. La corte borbonica però non si sarebbe adattata rapidamente al nuovo assetto unitario dell’Italia, ma lo avrebbe ancora contrastato. Difatti, dal suo esilio romano, Francesco II tentò la riconquista del trono di Napoli, indirizzando verso una reazione antiunitaria, quel movimento di insurrezione popolare che dal 1860 infestava le province del Meridione, e che gli storici avrebbero poi definito con il termine di grande brigantaggio.
La conclusione del Risorgimento nel sud Italia e la nascita dello Stato unitario infatti non erano state accom-pagnate dalla fine del latifondo e dello sfruttamento economico dei contadini meridionali, e inoltre il nuovo regno aveva aumentato la pressione statale con nuove tasse, peggiorando le già misere condizioni di vita. Il malessere popolare così confluì, almeno fino a tutto il 1865, in una rivolta sociale, che assunse veri e propri aspetti di guerra civile, e si scagliò contro i proprietari terrieri e le nuove autorità liberali locali. Contadini, braccianti, pastori, renitenti alla leva e disertori affiancarono comuni criminali nella formazione di bande, de-dite ai saccheggi, alle rapine ed alla violenza. Questo banditismo fu però incapace di darsi una propria orga-nizzazione, e a lungo divenne strumento in mano ai lealisti borbonici e ai clericali, per obiettivi antiunitari e antiliberali. Il grande brigantaggio, sorto come fenomeno sociale, dal febbraio del1861 assunse così anche un carattere politico.

Lo spionaggio borbonico
Non era la prima volta che i Borboni sfruttavano l’insoddisfazione popolare per fini politici. Nel 1799 infatti, l’insurrezione sanfedista, di popolani e briganti, voluta e guidata dal Cardinale Ruffo, travolse le repubbliche giacobine del napoletano, permettendo a Ferdinando di Borbone di ritornare sul trono di Napoli. Francesco II riteneva che il successo di questo precedente potesse ripetersi se vi fosse stata la capacità, da parte delle autorità borboniche, di dare un’unica guida ed un indirizzo legittimista alla rivolta brigantesca. A tal fine il re, appena giunto a Roma, incaricava il marchese Pietro Calà Ulloa, Presidente del governo in esilio, di realizzare una rete di spionaggio che operasse con compiti di sobillazione nelle campagne meridionali, si ponesse in contatto con i capi banda delle province più lontane del Mezzogiorno, per finanziarli ed istruirli sugli interessi liberali da colpire, ed infine organizzasse bande, comandate da ufficiali borbonici, attive nel territorio italiano prossimo al confine pontificio. Per questa rete Ulloa poteva contare sulla collaborazione di molti lealisti che da tempo si erano rifugiati a Roma, in maggioranza rappresentanti dell’aristocrazia, ex impiegati destituiti e numerosi membri dell’esercito borbonico. Circa 16000 soldati e 600 ufficiali avevano trovato riparo nei confini pontifici, tanto che molti dei soldati furono impiegati nelle bande, mentre gli ufficiali svolsero le funzioni di agenti segreti.
L’organizzazione reazionaria era divisa in comitati, con al vertice il Comitato Centrale di Roma, che si riuniva sotto il nome di Associazione Religiosa, ed era presieduto dal conte di Trapani e dal Ministro della Guerra, il fratello del re, il conte di Trani; mentre la carica di Segretario Generale era ricoperta dal generale Clary. Il Comitato Centrale stabiliva i piani strategici della guerriglia, e inoltre si sarebbe preoccupato di trovare il de-naro e le armi da inviare alle bande. A rendere esecutive le decisioni del Comitato Centrale si occupavano i comitati segreti locali, che erano stati istituiti a Napoli, Bari, Gioia del Colle, Melfi, Civitavecchia, Frosino-ne, Velletri, e Pratica di Mare; nelle località senza comitati invece operavano gli emissari. Questi centri loca-li si componevano di un delegato, con estesi poteri, nominato dal Comitato Centrale, un segretario, con il compito di attivare le comunicazioni con gli altri comitati, un cancelliere, un cassiere generale e quattro cen-sori, responsabili dell’amministrazione della cassa e degli atti degli affiliati. Inoltre otto deputati avevano l’ufficio di soccorrere i poveri, era questo un modo per ottenere consensi tra i locali, mentre otto decurioni, i più influenti sulla popolazione, si occupavano dell’arruolamento. Le trasmissioni tra comitati e tra questi e i capi banda erano garantite dagli staffieri (corrieri), due per ogni centro.

L’arruolamento
I comitati segreti avevano il compito di arruolare, di organizzare lo spionaggio, curare la propaganda (finan-ziando giornali ed affiggendo per le strade dei paesi manifesti inneggianti all’insurrezione contro i piemonte-si) e di coordinare le attività delle bande.
L’arruolamento avveniva con l’appoggio e la collaborazione delle autorità pontificie. Alcuni briganti catturati da reparti militari italiani raccontavano così di essere stati contattati: si presentavano a loro, che erano origi-nari dello stato borbonico, ex ufficiali napoletani, accompagnati da poliziotti pontifici che li intimavano, come ordine di polizia, di arruolarsi presso le bande di Chiavone (Luigi Alonzi, detto Chiavone, ex guardaboschi di Sora, fu capo banda e condusse la sua guerriglia sul confine pontificio e presso le selve di Castro). Passavano la notte nei magazzini di Palazzo Farnese (sede romana della corte borbonica) per poi essere condotti alla frontiera. La paga giornaliera era di 4 carlini, ma sarebbe stata consegnata solo al ritorno di Francesco II sul trono di Napoli; venivano inoltre muniti di un brevetto, che dava loro il diritto di entrare in possesso di terreni od essere assunti presso l’amministrazione pubblica una volta restaurato il regno borbonico.
Le bande formate a Roma erano guidate da un comandante in capo e da ufficiali scelti dal Comitato Centra-le. Per superare il confine ed evitare di incappare nei controlli delle truppe francesi, gli arruolati indossavano le uniformi della polizia vaticana. Questa precauzione non era sempre necessaria, in quanto i francesi dove-vano garantire esclusivamente la difesa dei confini papali e la sicurezza del Papa da minacce italiane, e quindi non si preoccuparono spesso di contrastare i briganti. Ma in quei rari casi in cui intervenivano per di-sarmarli, si attivava subito la gendarmeria vaticana, che li rimetteva in libertà e riconsegnava loro le armi. La maggioranza degli arruolati era scelta tra villani, vagabondi e malviventi, ed a Roma venivano contattati, an-che direttamente da sacerdoti, in piazza Montanara e a Campo de’ Fiori. Altri luoghi di arruolamento erano Velletri, Anagni, e, in provincia di Frosinone, nel Convento di Scifelli, e nelle Abbazie di Casamari, Trisulti e San Sozio; quest’ultime, per la loro posizione strategica vicino alla frontiera italiana, svolgevano anche il compito di sicuro rifugio per le bande, oltre quello di quartieri generali, di magazzini di armi e vestimenti.
Intanto a Roma, Villa Patrizi, presso Porta Pia, era luogo di convegno per gli esponenti clerico-borbonici, tra cui il padre cappuccino Gian Maria di Potenza, confessore di Francesco II, ed il potente Monsignor Gallo; in queste occasioni si decideva dei rapporti da mantenere con i vescovi stranieri, per convincere la Francia di Napoleone III ad aiutare la corona cattolica dei Borboni, e delle relazioni con i comitati napoletani.
Nella seconda metà del 1861, l’organizzazione reazionaria borbonica era già operante, poteva contare su 81.000 iscritti, di cui 17.000 armati.

L’organizzazione internazionale
Francesco II prima di lasciare Gaeta, aveva rivolto un appello alle monarchie d’Europa perché lo sostenes-sero finanziariamente e militarmente, puntando sul fatto che il tema legittimista fosse molto caro alle case regnanti europee, ma non ottenne risposte positive. La corte borbonica era però consapevole che la batta-glia si sarebbe combattuta, politicamente, anche sul piano internazionale, quindi fu dato incarico ancora al marchese Ulloa di sensibilizzare l’opinione pubblica e politica europea alle vicende del Meridione. Così per le strade di Parigi iniziarono ad apparire manifesti inneggianti ai Borboni, e sempre a Parigi furono fondati giornali, quali: “Le Roi de Naple et l’Europe”, “François II Roi d’Italie”, “Rome et Gäete”, “Le Journal de Siége de Gäete”, che si schieravano a favore di Francesco II, ed inoltre molte erano le pubblicazioni, francesi ed inglesi, che descrivevano i briganti come lealisti. Si costituirono comitati per l’arruolamento anche all’estero, a Parigi, Tolone, Marsiglia, Malta e Barcellona. L’ambasciatore di Spagna presso la corte borbonica, Bermu-dez de Castro, si attivò, in Spagna ed in Francia, per far giungere al re di Napoli aiuti militari ed economici, ma ottenne solo l’arrivo di pochi legittimisti europei che sarebbero stati inviati al Sud per porsi a capo delle bande.
Senza aiuti stranieri, l’impegno reazionario diventava sempre più oneroso per le casse borboniche, tanto da spingere Francesco II, sul finire del 1861, a ricorrere ad uno stratagemma; furono, infatti, battute a Roma monete da 20 centesimi borbonici con la data del1859, ed inviate ai comitati locali del sud per l’arruolamento. Si faceva credere infatti che il ritorno dei Borboni sarebbe stato imminente, e che quindi an-che le loro monete avrebbero presto ripreso corso legale. Le finanze reali dovettero subire anche attacchi di natura diversa, basti pensare che, sempre nel 1861, un certo Henri de Chatelinan, accreditandosi presso la corte borbonica come eroe legittimista, fu incaricato da Francesco II di porsi a capo delle forze reazionarie, ma scomparve nei giorni successivi con 30.000 lire (circa centomila euro). Così come il legittimista austriaco Ludwing Zimmerman, che si recava spesso dal sovrano borbonico per ottenere denaro da destinare alle bande di Chiavone, ma più delle volte lo utilizzava per fini personali e poco nobili. Ed altri ancora, special-mente capi banda, che, attratti dai soldi provenienti da Roma, si mettevano in contatto con emissari borbonici senza poi realizzare le missioni per cui erano stati pagati. Come rimedio a questi comportamenti il Comitato Centrale invitava quelli locali a nominare, come cassieri e censori, persone sulla cui onestà non si potesse dubitare, e spesso la scelta ricadeva su sacerdoti.

Il ruolo della Chiesa
La casa reale borbonica, nella sua campagna antiliberale, ottenne aiuto dallo Stato pontificio. I motivi che spingevano il governo di Roma a contrastare il nuovo regno d’Italia, erano numerosi. Per esempio la perdita di ampi territori e beni, a vantaggio del Piemonte, che aveva ridotto i confini pontifici a poco più del Lazio, i progetti democratici (dei mazziniani e garibaldini) di completare l’unificazione con la presa di Roma ed infine i recenti decreti Mancini (17 febbraio 1861) che espropriavano mediante confisca i beni ecclesiastici. Per quest’azione antiunitaria il governo di Roma, presieduto da Monsignore De Merode, poteva contare sulla potente rete episcopale del sud e sull’influenza che la Chiesa aveva nelle campagne meridionali. Inizialmente però la propaganda legittimista del clero fu discreta, i sacerdoti, nelle loro prediche, alludevano a Vittorio Emanuele II designandolo come Erode e a Francesco II come Gesù Cristo. Ma ben presto iniziarono ad inci-tare le popolazioni perché aiutassero i briganti e perché questi si scagliassero contro i liberali, ed ovunque sostituissero la croce dei Savoia con i gigli dei Borboni. I conventi di Napoli ricettavano uniformi e kepie della Guardia Nazionale italiana per vestire mercenari e lanciarli in assalti ai corpi di guardia.
Nella primavera del 1861 il brigante Carmine Donatelli detto Crocco, che operava con la sua banda al confi-ne tra la Basilicata e la Campania, fu accolto dall’arciprete di Lavello, Ferdinando Maurizio, con la bandiera bianca dei Borboni. Mentre nell’avanzare in Irpinia, a S. Andrea di Conza, gli fu offerto un banchetto ed ospi-talità nel seminario dall’Arcivescovo Gregorio De Luca. Per questi atteggiamenti i vertici religiosi furono spesso colpiti dalla repressione italiana; sempre nel 1861, il generale Cialdini, autorità militare e civile nel Meridione, decise l’espulsione dal regno dell’Arcivescovo di Napoli, e seguirono lo stesso destino i vescovi di Salerno e Teramo, mentre altri 71 furono arrestati o fuggirono a Roma. Non tutto il modo clericale fu comunque favorevole a rispettare le direttive provenienti da Roma; numerosi preti infatti avevano combattuto contro gli stessi Borboni e famosa fu la posizione dei cappuccini della Basilicata e di Salerno, che seguirono i dettami della loro guida, padre Giovanni de Pescopago, di provata fede liberale, che in aperta insubordinazione alle gerarchie ecclesiastiche, il 29 agosto 1861, nella sua enciclica richiamava i cappuccini a “ […] non essere quelli che benedicevano i pugnali, di non accendere l’odio e la ferocia e di non armare i fratelli contro i fratelli […]”. Gli esponenti liberali del clero erano soggetti alla scomunica od alla sospensione a divinis perché si opponevano a predicare nelle campagne l’imminente restaurazione borbonica, realizzata grazie all’appoggio del Papa, dell’Austria e della Francia. Il brigante Francesco Gumbaro, appena arrestato, durante l’interrogatorio diceva: “Mi unì alla banda di Sacchitiello, perché mi illusero che era protetta da Francesco II, che mandava denari e munizioni e che tra breve sarebbe rientrato a Napoli e ci avrebbe dato terreni e denari”. A sostenere queste credenza, gli emissari borbonici consegnavano ai briganti bottoni ed anelli di zinco, sui quali erano incisi una corona ed una mano che impugnava uno stilo con un motto: Fac et spera.
Gli anni orribili
Nella primavera del 1861 i provvedimenti del governo Cavour aumentarono il malcontento popolare, spin-gendo molti a darsi alla macchia. Le bande, composte da un minimo di 15 ad un massimo di 500 uomini, si formarono un po’ ovunque (Abruzzo, Molise, Puglia, Basilicata, Calabria, Campania) ed operarono spesso indisturbate nelle province, dove l’autorità militare poteva dispiegare solo 1500 carabinieri, alcuni reparti di polizia e della Guardia Nazionale. Quest’ultima, male armata, male organizzata e non sempre fidata; mentre circa 20.000 soldati erano schierati alla difesa di Napoli e dei principali capoluoghi. Le piccole comunità era-no costrette ad arrendersi agli assalti ed ai saccheggi. In alcuni paesi, la gente non si vergognava di segna-lare ai banditi le case dei possidenti o dei liberali per avere la vita salva. La Guardia Nazionale era presente nei villaggi con solo 5 o 6 uomini e si lasciava facilmente disarmare. Spesso i sindaci facilitavano l’occupazione dei loro paesi per ridurre i danni, e poi, dopo aver invitato i banditi ad andarsene, avvertivano i soldati per non avere guai con la legge. Le bande operavano con tattiche di guerriglia, non accettavano mai di scontrarsi direttamente con i reparti militari italiani, e gli agguati e le occupazioni dei paesi venivano sempre pianificati studiando le vie per la ritirata. Le bande conoscevano perfettamente il territorio, avevano una estrema mobilità, potevano ingrossarsi, frazionarsi, disperdersi e ricomporsi rapidamente.
Nel 1861 furono numerose le azioni violente e le occupazioni di interi paesi. Il bandito Crocco alla guida di 600 uomini occupò in Basilicata, Venosa e Melfi, issando le bandiere borboniche, e mettendo a riscatto i galantuomini. Il capo banda Vincenzo Petruzziello a Montemiletto (AV) uccise il capitano della Guardia Nazionale, il sindaco, l’arciprete, ed alcuni uomini furono sepolti vivi nel cimitero. Dopo essere stato arrestato, Petruziello rivelò che la banda riceveva denaro da Roma e da Benevento. Furono occupati paesi nella Terra di Lavoro (CE), nel Molise, e presso Benevento; in Irpinia 31 comuni alzarono la bandiera bianca borbonica, mentre presso Caserta alcune bande assaltarono un treno che trasportava truppe italiane verso Napoli.
Saverio Basile detto Pilorusso, entrato a Colle Sannita (BN), s’impossessò del comune al grido di “Viva Francesco II” e bruciò gli archivi. In onore dell’ex re di Napoli e della regina Maria Sofia, riunì, nella chiesa del paese, tutti i cittadini e fece cantare il Te Deum. A S. Giorgio del Sannio i possidenti locali, nell’interesse loro e del paese, dopo aver intimato al comandante della Guardia Nazionale di allontanarsi temporaneamen-te per evitare inutili spargimenti di sangue, invitarono Pilorusso in paese e gli fecero una festosa accoglien-za. Furono esposte le bandiere borboniche sul campanile della chiesa, vennero liberati i prigionieri dalle car-ceri, e questi armatisi, occuparono il municipio e bruciarono gli archivi. Un’usanza comune ai briganti era il rogo degli archivi, in quanto contenevano i registri dell’odiata leva e gli incartamenti dei processi.
In Puglia, il generale Clery, approfittando dell’odio che i contadini covavano verso i galantuomini, ordinò al comitato di Gioia del Colle, di favorire l’ex soldato borbonico, Pasquale Romano, conosciuto con il nome di battaglia di sergente Romano, a formare delle bande. Romano, con i soldi provenienti da Roma e dal comitato di Parigi, provocò l’insurrezione di Gioia del Colle, che fu duramente repressa dalle autorità italiane.
Dall’8 agosto al 6 settembre, Montefalcone Val Fortone (BN) fu amministrato dai filoborbonici, si trattava di briganti che ottennero ospitalità dalla popolazione locale. Emissari borbonici contattarono il bandito Michele Caruso, sulla cui testa c’era una taglia di 20.000 lire, perché compisse attacchi tra Foggia, Benevento e Campobasso. Caruso era solito sottoporre ai propri compagni un giuramento che li impegnava a combattere contro i liberali, nemici della Chiesa, per restaurare il potere di Francesco II.
Nel 1862, le azioni banditesche si concentrarono nell’alta valle dell’Ofanto, tra la Basilicata e l’Irpinia, circa 400 erano le bande, con 80.000 uomini alla macchia, senza contare gli informatori, i rifornitori, i conniventi e i parenti.

I legittimisti europei
L’appello di aiuto di Francesco II alle monarchie europee era rimasto inascoltato, ma la causa borbonica in Europa aveva riscontrato l’interesse di avventurieri legittimisti, che nel 1861 giunsero a Roma. Francesco II pensò di utilizzarli per affiancare i capi banda. Questo era il tentativo di dare al movimento un certo coordi-namento e di limitare la strategia dei saccheggi dei briganti che iniziava a suscitare malcontento nelle popo-lazioni locali. Così il Comitato centrale inviò il francese Olivier De Langloise in Basilicata a Lagopesole, da Crocco per consegnargli 800 fucili e denaro, e proseguire poi fino a Potenza per riunire gli sbandati della zona. I fucili consegnati alle bande venivano spesso dalle armerie vaticane, infatti ai briganti arrestati furono più volte trovate armi con lo stemma pontificio.
Nell’inverno del 1861, Ludwing Zimmerman, con il prussiano Edwin Kalckreuth affiancò Chiavone in Basilica-ta. Anche il barone Theodor Friedich, figlio naturale del principe Ludovico Ferdinando di Prussia, raggiunto Francesco II già a Gaeta, formò una brigata leggera ad Itri, partecipando agli scontri in Abruzzo.
Oltre a Josè Borjes (vedere box) occorre ricordare lo spagnolo Carlo Tristany, carlista, che raggiunse nel no-vembre del 1861, assieme al marchese belga Alfredo de Trazégnies, parente di Monsignor De Merode, le bande di Chiavone sul confine pontificio. Da subito però Tristany contestò a Chiavone i metodi della reazio-ne, basata esclusivamente sulla violenza. Il capo banda, nella sua azione, però potè contare sul sostegno di parte della corte borbonica, recandosi più volte a Palazzo Farnese, in udienza da Francesco II, per ottenere ulteriori armi e denaro. Ma ricevette anche l’appoggio dalla Chiesa, in particolare dai gesuiti che lo giudica-rono un combattente politico, e spesso si rifugiò dal Vescovo Monsignor Montieri, presso il convento di Scifelli. Il suo declino iniziò nel 1862, quando, contemporaneamente alla decisa repressione italiana del brigantaggio, il sostegno ed il finanziamento della Chiesa e dei Borboni ai briganti iniziò a venir meno, ed allora Tristany si vendicò. Infatti lo spagnolo dopo un processo di guerra lo condannò a morte per tradimento nel giugno 1862. Ma ben presto Zimmerman e Tristany, veduti gli scarsi risultati, decisero di ritirarsi, mentre Kalckreuth e de Trazégnies precedentemente erano stati catturati e fucilati dalle truppe italiane senza essere sottoposti prima ad alcun giudizio.
I capi banda non accettarono mai di cedere il comando dei loro gruppi a questi avventurieri, perché erano ostili, per tradizione, a qualsiasi straniero e poi perché i briganti, in generale, non furono mai dei veri legitti-misti. Gli emissari da Roma, quindi spesso si affidarono a persone in malafede e senza nessun ideale politi-co, ciò però fu capito troppo tardi dalla corte borbonica.
Inoltre Francesco II fu spesso illuso sulla portata reazionaria del movimento banditesco. Per esempio, nel novembre 1861, l’avventuriere francese De Rivieré, comandante di numerose bande, mentre si recava a Roma per ottenere udienza dal re, fu arrestato dalla polizia pontificia, caso raro, su ordine della Comitato Centrale. Misteriosamente scomparvero i suoi documenti che avrebbero dimostrato al sovrano l’esigua forza del fenomeno antiunitario e prove compromettenti il potente generale Clery ed altri membri del Comitato, sulla cattiva conduzione della guerriglia.

1863, fine del brigantaggio politico
All’inizio del 1863, il tentativo legittimista era tramontato, il brigantaggio perse la sua caratterizzazione politi-ca per continuare a mantenersi, come esteso e violento fenomeno sociale e di ordine pubblico, fino a tutto il 1865. Le cause di questo fallimento si trovavano, oltre che nei limiti della reazione sopra elencati, certamente nella durissima repressione avviata nel 1863 dalle autorità italiane. La lotta contro il brigantaggio impiegò 120.000 soldati. Furono promulgate leggi speciali (legge Pica e legge Peruzzi), che istituirono tribunali speciali e che sospesero qualsiasi diritto per gli accusati di banditismo, furono stabilite taglie contro i briganti e premi per chi si fosse costituito o pentito, fu potenziata la rete di spie. Tra il 1861 ed il 1865 furono uccisi quasi 14.000 briganti, senza contare i condannati e i fermati.
Ben presto anche il Vaticano iniziò a combattere il brigantaggio che aveva perso ogni connotato antiliberale per diventare semplice criminalità; tra il 1864 e 1865 numerosi furono i proclami delle autorità romane contro le bande. Il Delegato Apostolico di Frosinone Monsignore Pericoli, emanò un severo editto contro il brigan-taggio nelle zone di confine; si istituì una commissione per giudicare, anche con sentenza di morte, senza appello, le azioni delle bande nelle province di Velletri e Frosinone. Nel settembre 1864, Napoleone III decise di ritirar lentamente le sue truppe, la difesa dello Stato pontificio sarebbe passata all’Italia, limitando così la libertà di movimento dei briganti alla frontiera. Nel 1865, la Convenzione di Cassino istituzionalizzò la col-laborazione tra autorità pontificie italiane per la lotta al brigantaggio. I Borboni non sarebbero più tornati sul trono di Napoli.
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Approfondimenti

JOSE’ BORJES, IL GARIBALDI BORBONICO
Francesco II voleva dare un comando unitario alle numerose bande di briganti del Meridione, al fine di pro-muovere nelle zone rurali una estesa insurrezione contadina che restaurasse il trono di Napoli. L’obiettivo era di ripercorrere l’iniziativa garibaldina, ma questa volta in senso antiunitario. Occorreva però individuare una personalità capace di porsi a capo di una tale missione. Il Principe Ruffo di Scilla, fedele borbonico, grazie alla collaborazione dell’ambasciatore spagnolo presso i Borboni, Bermudez de Castro, si mise in contatto in Francia con José Borjes. Borjes, catalano, ufficiale spagnolo, ritenuto un eroe legittimista per i servizi pre-stati in Spagna alla causa carlista, si era però rifugiato in Francia, svolgendo un’attività poco guerrigliera, quella di rilegatore di libri. Il Principe Ruffo incontrò a Parigi Borjes per metterlo a corrente dell’iniziativa nel sud Italia. Le autorità borboniche, grazie ai comitati locali ed agli emissari, avrebbero fatto in modo che l’ufficiale spagnolo fosse ricevuto al suo sbarco in Italia, in Calabria, da numerosi contadini e briganti, tutti ben armati. A capo di questo esercito avrebbe dovuto risalire la penisola, liberando le regioni meridionali dai piemontesi. Fu scelta la Calabria, in quanto la Sicilia, ostile al governo di Napoli, rivendicava una propria autonomia e si dubitava sulla possibilità di provocarvi una lotta reazionaria.
Nell’estate del 1861 il generale Clary dette per iscritto istruzioni a Borjes, il quale, appena giunto in Calabria, avrebbe stabilito il potere militare di Francesco II nelle zone occupate, nominato i sindaci, gli aggiunti, i decurioni e la Guardia Civica. Avrebbe scelto uomini devoti al re ed alla regina, proclamato il servizio militare ed organizzato l’esercito in reggimenti e battaglioni e stabilito i tribunali ordinari e l’amnistia per tutti i reati politici. Invece i governatori delle province sarebbero stati nominati dal re. Borjes, alla vigilia della sua partenza da Marsiglia, avrebbe avvertito il generale Clary dell’inizio dell’invasione, attraverso un messaggio telegrafico da recapitare a Roma presso questo indirizzo: Langlois, Via della Croce n° 2, e con questo testo: Giuseppina gode buona salute, si rimette parte del giorno.
Borjes sbarcò in Calabria a Brancaleone, presso Capo Spartimento, il 14 settembre 1861 con 17 compagni volontari italiani e spagnoli. Ad attenderlo non trovò numerosi combattenti lealisti, ma solo pochi locali, i cit-tadini di Prelacore, guidati dal loro sacerdote. Iniziò così la sua avanzata verso la Basilicata, evitando nume-rose imboscate procuratele da alcuni paesi di fede liberale, ma riuscendo ad ottenere spesso asilo presso alcuni monasteri. Giunse a Longopesole, in Basilicata, il 22 ottobre e si mise in contatto con le bande di Carmine Donatelli, detto Crocco. Aveva infatti ricevuto ordini dal Comitato di limitare l’azione di Crocco, senza però rinunciare al suo appoggio. Il bandito Crocco era un contadino di Rionero, condannato da giovane per reati contro la proprietà. Era evaso all’indomani della rivoluzione garibaldina, e dopo l’inutile tentativo di riabilitarsi partecipando nel reparto garibaldino dei “volontari di Basilicata”, per evitare il nuovo arresto, si dette alla macchia. Formò una banda di 2000 uomini e con 100 cavalli, capace poi di frammentarsi in 40 piccoli gruppi, fu attivo nelle zone di Lagopesole e Melfi. Assieme a Crocco, Borjes compì molte incursioni nei centri della Basilicata. Ma Borjes era un militare e voleva condurre l’azione secondo schemi militari e non gradiva il modo di operare dei banditi; così disgustato dai modi del capo banda, decise di provocare l’insurrezione a Potenza, per presentarsi al comando borbonico con la conquista di un importante capoluogo e confermare la propria fama di condottiero. Crocco era contrario, sapeva infatti che le bande non potevano attaccare una città come Potenza che era difesa bene dai militari italiani. Infatti il tentativo falli. Crocco, si rifugiò nei boschi del Vulture, si separò dallo spagnolo e sciolse la sua banda. Cadrà vittima della lotta tra capi banda e delle spie al soldo delle autorità italiane, tradito, fu arrestato a Roma nel 1864, dove si era rifugiato, e condannato ai lavori forzati a vita. Borjes decise di recarsi da Francesco II per informarlo delle difficoltà di operare con i briganti e l’impossibilità di provocare un’insurrezione, per la scarsa disponibilità dei capi banda a collaborare con gli stranieri. La sera del 14 dicembre 1861, a Tagliacozzo (AQ) nel tentativo di entrare nel territorio pontificio, fu sorpreso da un reparto di bersaglieri, guidati dal comandante Franchini, messo sulle sue tracce dalle indicazioni del console francese De Rotrou, e dopo un sommario giudizio sul luogo, nella stessa notte, fu fucilato assieme ai suoi compagni.
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IL GIURAMENTO
Nell’Ottocento, scrittori e letterati internazionali, in particolare francesi ed inglesi, tra cui Dumas padre, rivol-sero la loro attenzione alle vicende del brigantaggio. Nelle capitali europee numerosi giornali riportavano i resoconti delle gesta dei briganti e le vicende del Meridione italiano, che suscitavano notevole interesse tra i loro lettori. Tra i cronisti dell’epoca occorre ricordare il francese Marc Monnier (Firenze 1829-Ginevra 1885), già professore di letteratura straniera a Ginevra e rettore dell’Università della stessa città, che fu corrispon-dente per molti anni da Napoli per numerosi giornali: “Jounal des Débates”, “Revue des deux Mondes”, “Ma-gasin Pictoresque” e “Illustration”.
Testimone diretto degli anni del grande brigantaggio, nel 1862, Monnier descrisse il fenomeno banditesco nelle pagine di un suo libro dal titolo, Notizie storiche sul brigantaggio, che fu pubblicato, con successo, a Firenze nel 1865. Fu uno dei pochi testi, riguardanti il brigantaggio, che non fu censurato dalle autorità italiane perché si poneva critico verso i briganti ed accusava apertamente i Borboni e la Chiesa dell’uso politico delle bande. Per tale opera fu nominato personalmente da Vittorio Emanuele II, Ufficiale dell’Ordine di S. Martino e S. Lazzaro, una delle onorificenze più prestigiose del periodo. Dal libro di Monnier possiamo trarre la formula di giuramento degli affiliati ai comitati segreti borbonici:
“Noi giuriamo dinanzi a Dio e dinanzi al mondo intiero di essere fedeli al nostro augustissimo e religiosissimo sovrano Francesco II (che Dio guardi sempre) e promettiamo di concorrere con tutta la nostra anima e con tutte le nostre forze al suo ritorno nel regno; di obbedire ciecamente a tutti i suoi ordini, a tutti i comandi che verranno sia direttamente sia per i suoi delegati del Comitato Centrale residente a Roma. Noi giuriamo di conservare il segreto affinché la giusta causa voluta da Dio, che è il regolatore dei sovrani, trionfi con il ritorno di Francesco II, re per grazia di Dio, difensore della religione e figlio affezionatissimo del nostro Santo Padre Pio IX, che lo custodisca nelle sue braccia per non lasciarlo cadere nelle mani degli increduli, dei perversi e dei sedicenti liberali, i quali hanno per principio la distruzione della religione, dopo aver scacciato il nostro amatissimo sovrano dal trono dei suoi antenati, Noi promettiamo anche con l’aiuto di Dio di rivendicare tutti i diritti della santa sede e di abbattere il lucifero infernale, Vittorio Emanuele e i suoi complici. Noi lo promettiamo e lo giuriamo “.
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Bibliografia orientativa
Testi di carattere generale:

AA. VV., Brigantaggio, lealismo, repressione nel mezzogiorno, 1860-1870, Macchiaroli, Napoli, 1984.
G. Candeloro, Storia dell’Italia Moderna, Feltrinelli, Milano, 1972, Vol. V.
A. De Jaco (a cura di), Il Brigantaggio Meridionale-Cronaca inedita dell’unità d’Italia-, Editori Riuniti, Roma, 1969.
G. De Matteo, Brigantaggio e Risorgimento: legittimisti e briganti tra i Borbone e i Savoia, A. Guida, Napoli, 2000.
G. Galasso, Storia d’Italia, UTET, Torino, 1981,Vol. XX.
Perrone, Il Brigantaggio e l’unità d’Italia, Istituto Editoriale Cisalpino, Varese, 1963.

Testi di carattere particolare

A. Bianco di Saint-Joroz, Il Brigantaggio alla frontiera pontificia dal 1860 al 1863, A. Forni, Bologna, 1965.
N. Calzone, Briganti o partigiani?La rivolta contro l’unità d’Italia nel Sannio e nelle altre province del sud (1860-1880), Realtà Sannita, Benevento, 2001.
M. Monnier, Notizie storiche sul Brigantaggio nelle province napoletane, A. Polla Stampa, i Tascabili d’Abruzzo, 1986.

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