giovedì 22 gennaio 2009

Barack Hussein Obama si insedia alla Casa Bianca

Gli occhi del mondo sono puntati sul nuovo presidente americano. Nessuno prima di lui ha suscitato tante aspettative. Opinioni a 360 gradi sul nuovo simbolo statunitense. A cura di Francesco Della Lunga

3 commenti:

Unknown ha detto...

Cari amici, spero in un lungo dibattito. Queste le mie prime considerazioni, con uno sguardo alle vicende italiane.
Di tutto il messaggio di Obama alla nazione americana, raccolta di fronte al Campidoglio, vi sono due passaggi che sono, a mio avviso, di notevole livello, soprattutto se si pensa a quella che è stata la politica italiana negli ultimi anni. Il primo passaggio dice “Oggi siamo riuniti qui perché abbiamo scelto la speranza rispetto alla paura, l’unità degli intenti rispetto al conflitto ed alla discordia”. Il secondo dice “Il nostro viaggio non è mai stato fatto di scorciatoie, non ci siamo mai accontentati. Non è mai stato un sentiero per incerti, per quelli che preferiscono il divertimento al lavoro, o che cercano solo i piaceri dei ricchi e la fama. Sono stati invece coloro che hanno saputo osare, che hanno agito, coloro che hanno creato cose - alcuni celebrati, ma più spesso uomini e donne rimasti oscuri nel loro lavoro, che hanno portato avanti il lungo, accidentato cammino verso la prosperità e la libertà. Per noi, hanno messo in valigia quel poco che possedevano e hanno attraversato gli oceani in cerca di una nuova vita”.
Vorrei fare una piccola digressione in chiave nazionale/locale per approfondire gli aspetti di politica estera in un secondo momento. In chiave nazionale questi due passaggi assumono una rilevanza clamorosa. Rispetto infatti a quello che ci hanno dichiarato, a più riprese, in campagne elettorali urlate, ma anche durante l’azione di governo, di fatto ostacolata dalle minoranze con una dialettica violenta, ci pare che si sia soffiato prepotentemente sulle paure degli italiani piuttosto che su messaggi che potessero unire. Sembrano due passaggi scollegati, ma nella nostra realtà potrebbero essere fortemente uniti. La paura del diverso è stato uno dei cavalli di battaglia della Lega e della Destra che governa il paese. Ci viene da pensare che questo sentimento di paura verso gli immigrati sia abbastanza diffuso e che non tutto quello che questi due partiti hanno portato avanti fosse da ostacolare o semplicemente da condannare. E’ però la volontà di non integrare o di respingere quello che è apparso assai più chiaramente dai numerosi messaggi che hanno reso gli italiani più diffidenti se non addirittura razzisti. Ed oggi questi sentimenti sembrano assai diffusi, anche nell’animo di persone che sono sempre state miti e riflessive. La maggioranza silenziosa, quella della gente che lavora, che produce, che si impegna, che è anche lontana dalla politica non ama la presenza degli extracomunitari nel paese. E’ un dato di fatto. Ci scopriamo razzisti, come forse un tempo non siamo mai stati “brava gente”, nonostante che la propaganda del tempo ci dipingesse come dei bravi colonizzatori. L’altro passaggio mette in luce un processo ineludibile, quello dell’ascesa sociale dei figli di coloro che sono approdati sulle nostre coste sfidando gli scafisti ed il canale di Sicilia. Quelli che sono arrivati qua su un barcone e sono rimasti, iniziando a fare i lavavetri per poi passare ad occupazioni più “civili”, hanno generato figli che oggi sono a tutti gli effetti italiani. Poi ci sono i figli adottivi. Questo processo di integrazione, che forse non ha accolto nel miglior modo possibile i padri, non può tenere fuori i figli. Si legge che un bimbo su 10 che frequenta la scuola elementare è di immigrati. Le nostre case sono costruite da extracomunitari, prevalentemente europei (oggi la maggior parte di loro ha raggiunto lo status di cittadino comunitario se si considera che i rumeni sono il gruppo più significativo); i nostri nonni sono accuditi da altri cittadini extracomunitari. I lavori di pulizia sono appannaggio di altri extracomunitari. Le loro imprese crescono a velocità impressionante, le nostre chiudono alla stessa velocità. Queste persone sono guardate con grande sospetto, da ognuno di noi. Eppure anche coloro che lasciano il proprio paese con una valigia di cartone un giorno, tanto per ricordare cosa eravamo all’inizio del Novecento, potrebbero governarlo. Per quanto ci riguarda, come nazione, forse siamo al punto più basso del declino. Il riscatto potrebbe esserci offerto proprio grazie a loro, i viaggiatori colorati, con la valigia di cartone. Anche in questo caso, il nostro paese arriva sempre molto tardi nell’affrontare gli aspetti collegati al futuro. Si pensa di vivere solo al presente guardando al passato, e la nostra miopia sociale non ci consente di fare progetti per il futuro. Questi progetti, qualora dovessero e dovranno per forza essere fatti, non possono tenere fuori i figli degli immigrati, naturalizzati italiani. Quanto a noi, non ci rimane che darci da fare, per cercare di progettare un futuro migliore. Non che ci manchi la voglia, ma essa è sempre stata confinata ad una logica personale, individuale. Se riusciremo a passare dalla logica individuale a quella collettiva, un ulteriore passo in avanti sarà fatto. Una logica che permetterà, fra le altre cose, anche di integrare e di godere dei frutti che un giorno i figli dei viaggiatori colorati, con la valigia di cartone, saranno felici di darci.
Francesco Della Lunga

Anonimo ha detto...

Credo che l’Italia non sia un paese razzista, lo hai indicato proprio tu stesso che oggi in Italia vivono e lavorano migliaia di stranieri ed affidiamo a loro lavori, persone ed affetti. Un paese razzista non permetterebbe questo. Certo esiste una certa diffidenza degli italiani verso gli stranieri, ma l’Italia dopotutto non è mai stato quel paese aperto che molti vogliono far credere, siamo una nazione unitaria da neanche due secoli, abbiamo subìto dominazioni numerose e diverse (forse siamo aperti solo per farci sottomettere) accogliendo, spesso, dagli altri il peggio, siamo stati per secoli separati, ed infine l’Italia è il paese dei campanilismi, dove si guarda con sospetto, se non con disprezzo, il cittadino italiano che vive in una città o in un quartiere distinto dal nostro. Nonostante questo non credo che siamo razzisti.
Da un punto di vista delle istituzioni, sia i governi di destra che quelli di sinistra negli ultimi decenni hanno garantito un accesso sempre più ampio alle persone provenienti da tutto il mondo e per varie necessità. Purtroppo non hanno affrontato il tema dell’effettiva accoglienza dei nuovi immigrati. Infatti, è vero che la nostra economia ha bisogno di mano d’opera, e sarebbe benvenuta quella straniera, disposta a svolgere attività che gli italiani sembrano non voler più fare, ma agli immigrati occorre dare non solo un lavoro, ma anche dignitosi condizioni di vita (casa, assistenza, servizi). Nelle realtà delle nostre grandi città e delle nostre province queste condizioni non sempre è possibile e semplice concedere, perché abbiamo realtà e comunità spesso piccole, tradizionali, spesso chiuse, e agli amministratori, centrali e periferici,mancano le risorse finanziarie. Difatti l’ondata di immigrazione in Italia è un fenomeno relativamente recente, iniziato circa vent’anni fa, e tale inizio è coinciso con il lento declino dell’Italia, da potenza economica a lenta e arrugginita economia di servizi. Gli immigrati sono stati e sono una grande risorsa, anche anti-crisi, ma è indubbio che in una società italiana che ha dovuto affrontare il passaggio, la trasformazione da un periodo di benessere ad uno di crisi, l’integrazione di nuovi cittadini stranieri, in particolari nelle piccole comunità di provincia, si è dimostrato difficile, complesso. I numeri degli immigrati sono stati così superiori alle nostre reali capacità di assorbimento, determinando inevitabili tensioni.
Inoltre fanno bene gli italiani a denunciare una carenza di sicurezza, in quanto questa è reale, ciò però non è dovuto alla presenza degli stranieri sul nostro territorio, ricordiamoci infatti che quattro delle nostre regioni sono sotto il controllo della malavita organizzata. Ma, la situazione di crisi economica e le difficoltà di accogliere degnamente gli immigrati determinano, inevitabilmente, quelle condizioni di malessere e di esclusione dalla vita sociale e civile di alcuni soggetti più deboli (tra cui gli immigrati) spingendoli a delinquere.
E’ vero che anche noi in passato siamo stati terra di emigrazione, milioni di nostri connazionali si sono recati all’estero, tutti loro sono stati accolti a braccia aperte, tutti loro hanno trovato fortuna? Non solo, noi abbiamo esportato in varie parti del mondo anche la nostra criminalità organizzata, quindi è pensare male che da questi nuovi paesi di emigrazione non giungano anche reti di malaffare?
Dall’altra parte la politica politicamente corretta ha voluto sempre evidenziare, nel tema dell’immigrazione, solo il concetto che siamo tutti uguali, che è innegabilmente vero, specialmente in materia di diritti, mettendo però, allo stesso tempo, in disparte un altro concetto, che ogni popolo ha una propria tipicità che, sotto vari aspetti, non siamo tutti uguali, siamo diversi, ciò non significa migliori o peggiori, semplicemente diversi, con proprie e distinte peculiarità. Purtroppo in Italia, la politica istituzionale è stata più attiva e sensibile a riconoscere le peculiarità delle comunità immigrate (più diritti, meno doveri) rispetto alle esigenze e bisogni degli italiani stessi. L’italiano ha percepito così, forse malamente, l’immigrazione, come imposta senza alcun serio progetto di integrazione e rispetto nei confronti degli stessi immigrati dei cittadini italiani.
Sono un grande estimatore degli USA, una nazione giovane, nata proprio dagli immigrati, con un territorio talmente esteso da poter accogliere tutti, ed una mentalità, sorta dalla fusione di più culture, capace di ospitare tutti. Oggi si esalta gli Stati Uniti, capaci di eleggere un presidente di colore e figlio di un emigrante africano, sebbene occorra ricordare che Obama non nasce in un ghetto, ma, da parte di madre, da una ricca famiglia, che gli ha permesso studi ed esperienze internazionali. Ma non bisogna neanche dimenticare che questi Stati Uniti sono gli stessi dove fino all’Ottocento è esistita la schiavitù, dove fino a 30 anni fa, le minoranze erano escluse dal fruire di determinati servizi essenziali, ed in parte, sono tutt’oggi esclusi. E’ innegabile che gli USA permettano a chiunque, che abbia un’idea vincente, voglia e desiderio di emergere, di realizzare i propri sogni, ma non credo che le comunità straniere presenti negli Stati Uniti abbiano garanzie sul lavoro o di assistenza sanitaria migliori di quelle che esistono nel Vecchio Continente. L’anno scorso il Comune di Milano propose di vietare gli asili comunali ai figli di clandestini, in seguito alle proteste sollevate da più parti, tale iniziativa fu rimossa: i figli di clandestini possono recarsi alle scuole pubbliche.
Pensando ad altre realtà più vicine a noi, ad esempio la Francia e la Gran Bretagna, paesi per secoli colonizzatori e con ampissime comunità straniere sul proprio territorio, mi viene da pensare che non ho ricordanza di un personalità, appartenente a minoranze etniche, ricoprire cariche istituzionali di rilievo in uno di quei paesi (il governo Sarkozy ha rapidamente escluso dal proprio governo, ministri con origini africane). Non solo, Parigi non è riuscita ancora, semmai ci riuscirà, a risolvere l’integrazione di milioni di figli di immigrati, anche di terza generazione, a tutti gli effetti cittadini francesi. Siamo solo noi, italiani, i razzisti? Ma siamo, noi italiani razzisti?
RDF

Anonimo ha detto...

Il declino del nostro paese non dipende soltanto dall'essere incapaci di integrare chi arriva da fuori. Hai ragione quando sostieni che le altre grandi potenze europee che hanno avuto un'esperienza coloniale assai più lunga ed importante della nostra hanno tuttora problemi nei loro processi di integrazione. La Francia, con le vicende passate delle "banlieus" ne è l'esempio più tipico. L'analisi che hai fatto sulla chiusura delle nostre comunità è altrettanto condivisibile. Ed anche il fatto che gli italiani non erano preparati ad affrontare l'intenso flusso migratorio che si è generato in questi anni. E probabilmente per poter convivere con tranquillità con le nuove comunità ci vorrà ancora qualche decennio, sebbene i figli degli immigrati che frequentano le scuole dei nostri figli saranno, a mio avviso, il metodo migliore per una reale e giusta integrazione. Non voglio commentare alcune proposte di legge che sono apparse qua e la negli ultimi mesi, una delle quali prevedeva classi di studenti separate. Questa, qualora si verificasse, sarebbe davvero una patente di razzismo che spero l'Italia si voglia evitare. Ma se questo dovesse avvenire, non ci sarebbe altro da fare che prenderne atto senza più ipocrisia. Del resto, quando certe proposte prendono campo, significa che per quelli che le propongono la misura è colma e che quindi vi sono orecchie pronte ad ascoltare. Credo che questi problemi, comunque di difficile soluzione, potranno essere affrontati anche con un ricambio della classe politica. Ascoltando anche pochi minuti il discorso di Obama mi sembra che noi siamo lontani anni luce. Personalmente non ho mai amato i leader che racchiudono nella loro vicenda umana il loro modo di presentarsi agli elettori ed a questo destinano la maggior parte delle proprie fortune politiche. Non ho mai amato l'uomo della provvidenza o l'uomo fatale. Ho sempre privilegiato persone che cercavano di affermare un'idea. Ma il Novecento è passato, le grandi ideologie sono finite, oggi abbiamo bisogno di altro, di politiche diverse e soprattutto di leader che siano in grado di prendere decisioni. Se per altri paesi questo passaggio appare facile, noi ci portiamo comunque dietro una storia complessa che non ci permetterà percorsi altrettanto lineari. Nonostante questo penso che oggi ci sia bisogno anche da noi un leader che sappia suscitare speranze. Mi pare che questo sia ancora molto, molto lontano dal verificarsi, a prescindere dal fatto che possa risolvere il problema degli immigrati ed impedire così che venga compromesso il mito della "brava gente".
Francesco Della Lunga