mercoledì 5 novembre 2008

Elezioni USA: io avrei votato McCain

di Roberto Di Ferdinando

4 commenti:

Anonimo ha detto...

Io avrei votato McCain, a nessuno interesserà, ma io avrei votato McCain. Lo avrei votato principalmente, più che per una proprio orientamento politico od ideologico, perché non credo affatto nelle doti messianiche che vengono attribuite, in particolare da molti ed autorevoli analisti progressisti, specialmente europei, al nuovo Presidente statunitense, Barack Obama nel guidare gli Stati Uniti. Avrei votato McCain inoltre perché non credo che le scelte politiche delle amministrazioni democratiche siano migliori, più umane, più condivisibili, di quelle dei repubblicani come invece molti analisti europei, spesso molto snob e saccenti, ci hanno voluto spiegare negli ultimi mesi.
Ma oggi nel Vecchio Continente sono in molti che festeggiano l’elezione di Obama, in quanto democratico e perché finalmente è uscito di scena l’”incompetente” e “guerrafondaio” John W. Bush, mentre i repubblicani, ritenuti responsabili di aver appoggiato il loro leader nella scellerata guerra al terrorismo e nelle scelte economiche e finanziare che hanno messo in crisi l’economia statunitense, sono tornati all’opposizione.
Eppure le origini dell’attuale crisi dei mercati internazionali e della recessione mondiale ha origini, forse, molto lontane, e inoltre, sempre forse, l’amministrazione repubblicana di Bush non è stata tutta negativa.
Durante l’amministrazione democratica Clinton, gli USA conobbero un periodo, circa sei anni, di incredibile ricchezza, di sviluppo ed ottimismo. Ma questa euforia, in particolare nelle borse internazionali, era stata provocata dalla grande fiducia che il mercato aveva dato alle nuove tecnologie ed alle imprese della new economy che erano rapidamente sorte nella seconda metà degli anni Novanta. Fiducia che andava ben oltre la reale consistenza imprenditoriale e finanziaria di queste nuove aziende; difatti nel marzo del 2000 la bolla speculativa delle new economy scoppiò ed i mercati finanziari crollarono; l’economia e la società statunitense, troppo ottimiste fino ad allora, si erano troppo indebitate con il resto del mondo, gli USA iniziarono a balbettare.
Nel 2001 si insedia il Presidente Bush, la crisi continua, aggravata dall’attentato del 11 settembre. Bush risponde con la guerra, in periodi di crisi economica la guerra, non è politicamente corretto dirlo, ma è vero, sembra essere l’unico rimedio. La spesa pubblica americana salva molte imprese continentali ed internazionali ed i mercati internazionali tornano a respirare.
L’amministrazione Bush ricorre alla guerra anche perché era l’unica risposta possibile agli attacchi terroristi che aveva subito (non furono un complotto dei servizi segreti americani), guerra che ricordiamo essere stata avvallata dall’ONU, la stessa ONU che non aveva invece autorizzato la quella contro la Serbia per liberare il Kosovo, voluta questa dal democratico Clinton. Nel 1998-99 però poche furono le bandiere multicolore appese alle finestre e pochissime le manifestazioni di protesta contro la guerra democratica in Serbia.
Non solo, il terrorismo internazionale e islamico dichiara guerra agli USA ancor prima dell’insediamento dell’amministrazione Bush. Durante la presidenza Clinton infatti obiettivi civili, diplomatici e militari statunitensi sono duramente colpiti in Africa, Asia ed Europa. Gli stessi attentati dell’11 settembre sono preparati almeno da un anno, ancor prima che l’”imperialista” Bush fosse il candidato dei repubblicani. Il terrorismo vuole colpire gli USA, non gli USA di Bush, gli Stati Uniti rispondono, come sempre, in maniera pratica: guerra ai nemici.
Ma questa guerra al terrorismo è stata così scellerata?
Oggi Israele continua a vivere in uno stato di guerra, i palestinesi non possono godere dei diritti fondamentali, una situazione simile a quella di trent’anni fa, eppure oggi il Medio Oriente è molto più tranquillo, forse solo apparentemente, ma lo è, di dieci anni fa.
In Iraq non c’è più Saddam Hussein, il sanguinario dittatore, che aveva il difetto, agli occhi degli USA, più che di essere un tiranno violento, quello di essere un finanziatore dei terroristi. Oggi l’Iraq è stato liberato dal suo giogo, è vero non è un paese normalizzato, vi sono numerosi attentati (le bombe nei mercati le mettono i terroristi non gli americani), ma forse è stata data al paese arabo una speranza per un nuovo corso. Per questo sembra stupido ritirare i militari da quel paese, la presenza occidentale con i propri militare è indispensabile.
Prima della guerra del 2001, in Afghanistan c’era il regime dei talebani, un regime bieco, che sempre agli USA, poteva stare bene fino a quando non hanno iniziato anch’essi a finanziare e supportare il terrorismo islamico. Oggi al loro posto c’è il gentile, nobile e democratico Karzai, che però controlla ancora una piccola parte del paese, il resto è in balia dei talebani, ma questi non hanno più vita facile devono infatti contrastare la presenza militare occidentale. Ma anche qui, dove la presenza delle forze militari occidentali dovrebbe essere una speranza per la ricostruzione civile e democratica del paese, si sta parlando di ritirare le truppe. Curioso, dove si combatte e il futuro civile di due paesi (Iraq e Afghanistan) è a rischio, i politici progressisti e democratici chiedono di ritirarsi, (Obama non ha escluso di ritirarsi da quelle regioni), invece in Kosovo, dove la situazione è abbastanza normale e pacificata, l’esercito NATO vi staziona da oltre dieci anni.
Obama ha annunciato un cambiamento in politica estera, una politica multilaterale, di dialogo con gli alleati ed i nemici dell’America. Parole bellissime che hanno affascinato molte orecchie nel Vecchio Continente. Ma chi fa accordi con il nemico dimostra di essere in una posizione di forza o di debolezza? Sono possibili accordi con l’Iran (nell’agenda del neo presidente statunitense la questione di Teheran è al primo posto), con la Cina, con la Russia e con la Corea del Nord? E’ possibile trattare con questi paesi? Ritengo infatti che non ci si possa fidare di queste realtà, che sempre, anche recentemente, hanno dimostrato (guerra del Caucaso, riarmo nucleare, concorrenza scorretta e violazione dei diritti fondamentali) la loro scarsa propensione a condividere comuni principi di buona convivenza internazionale.
Mi chiedo quindi se Obama, dinanzi alle future crisi internazionali, che ci saranno e saranno ancor più dure, sarà in grado di fare scelte anche impopolari: nell’uso della forza armata, nel contrastare le nuove minacce, nelle scelte economiche e in quelle commerciali? Non è che il rischio di volersi distinguere a tutti i costi (change) dalla politica Bush possa paralizzare, indebolire i nuovi USA?
Nell’affrontare queste future questioni Obama però può contare su un forte elemento, quello di avere ricevuto un consenso enorme, di avere con sé la popolazione statunitense che difatti ha creduto nel suo messaggio di cambiamento e di speranza.
Gli USA hanno scelto il cambiamento, la speranza, forse anche i nemici degli USA sperano che gli Stati Uniti cambino.
RDF

Anonimo ha detto...

Io invece avrei votato Obama, per tante ragioni che cercherò di sintetizzare in qualche punto per non essere troppo prolisso e copioso. Intanto vorrei dire questo: Obama ha rimesso in moto le persone comuni che forse si sono stufate dell'establishment (anche se lui ne fa parte), che forse si sono stufate della realpolitik (anche se lui sarà costretto a ricorrerne), che forse si sono stufate di intervenire in tutti gli scacchieri internazionali (anche gli americani potrebbero stancarsi di fare i gendarmi del mondo e di morire in luoghi lontani dove, per molti di loro, sono veri e propri punti sconosciuti sul planisfero), che forse vorrebbero che i propri leader si confrontassero un pò di più dei problemi nazionali piuttosto di quelli internazionali. Non possiamo certamente sapere adesso se le cose andranno così. Però Obama ha rimesso in moto la speranza. E quando un popolo decide che si è stufato di tutto quello che gli è stato dato fino ad allora e torna a pensare al futuro, riappropriandosi della speranza, non ci sono MacCain, non ci sono Bush, non ci sono Reagan, non ci sono Tatcher (per passare ai cugini) che tengano. MacCain è stato probabilmente un signor candidato e fra quelli meno avversati dai democratici. Ma ha dovuto sobbarcarsi un onere enorme che non avrebbe mai potuto gestire. Si è rimessa in moto la speranza negli Stati Uniti, e quello che è accaduto in tutto il mondo (basta vedere i telegiornali ed i titoli dei principali giornali internazionali, con le reazioni dei governi e dei cittadini, e dell'enorme aspettativa che questo evento si è portato dietro) ne è una ulteriore dimostrazione. Probabilmente vedremo meno presenza negli scenari internazionali nei prossimi anni. Ci sarà senz'altro, ma forse sarà più "gentile" o "discreta". Per gentile o discreta intendo dire che gli USA potrebbero tornare a consultare le Organizzazioni Internazionali ed abbandonare l'unilateralismo di questi ultimi otto anni. E questo potrebbe chiudere molte vicende controverse di questo periodo, prima fra tutte la guerra all'Iraq dove improvvisamente si è deciso di abbattere quel "sanguinario dittatore" fino a pochi anni prima armato, finanziato e sostenuto proprio dagli USA nell'altra guerra contro lo scellerato regime Khomeinista. Una guerra nata con un casus belli inesistente e palesemente falso. Una guerra che, se gli strumenti del diritto internazionale fossero efficaci, non avrebbero difficoltà a condannare come una guerra di aggressione ingiustificata, condannando la Potenza Globale davanti agli occhi del mondo. Ma torniamo per un attimo agli USA, ad Obama, a quello che potrebbe accadere in questo controverso ed affascinante paese nei prossimi anni. Basta vedere cos'è successo durante il primo discorso del nuovo Presidente, poco dopo la constatazione della vittoria: gente di tutti i colori che ascolta, senza isterismi, che si commuove, che molto semplicemente aspetta che il nuovo presidente prenda in mano le redini della nazione e che la faccia ripartire. Verso dove? Semplicemente verso la speranza o verso il cambiamento. La speranza non necessariamente può essere oggettivizzata. Anzi non può esserlo in quanto componente spesso irrazionale dell'animo umano. Ma non si può vivere senza di essa. E solo pochi politici sono in grado di farla germogliare. Obama è uno di questi. Io sinceramente invidio questo modo di fare degli Stati Uniti: un discorso alto, pieno di richiami alla speranza, all'uguaglianza, alla sfida che da sempre ha connotato la vicenda americana, la frontiera, la voglia di mettersi in gioco, la voglia di salire nella scala sociale, il desiderio di esserci e di partecipare. Purtroppo, questa visione della vita molto genuina, semplice, o giovane, come lo è la nazione americana, si sposa poi anche con scelte poco ponderate che portano gli USA ad intraprendere guerre che agli occhi di molti sono un pretesto per il potere mondiale e che generano soltanto odio. In questo senso, gli USA tradirebbero il proprio modo di essere, il senso della missione, l'affermazione della libertà. Io invidio anche altre cose agli Stati Uniti: il senso di unità, a prescindere, e la voglia di sperare, di rompere la politica corrotta dell'establishment, di affidarsi ad un giovane di neppure cinquant'anni. Un uomo che è lontano dalle logiche del potere per il semplice fatto che non ha combattuto, che non è un militare, che proviene dal mondo universitario, e che è probabilmente poco legato al mondo industriale che spinge gli Stati Uniti ad intraprendere guerre. Questo è già un cambiamento epocale. Poi rappresenta la speranza di tantissimi uomini e donne di colore, di riscatto, di speranza per un mondo migliore anche per loro. Da noi queste cose sembrano difficili da accadere. Il nostro paese vive quotidianamente in una dimensione individuale, minimalista, senza slanci, senza passione per la cosa pubblica, vilipesa quotidianamente, senza una visione della propria storia, del proprio modo di essere, del proprio futuro. Un paese da anni alla ricerca di se stesso, di un proprio senso. Un paese che appare stanco, ripiegato su se stesso, vecchio. Un paese che fa pochissimi figli, un paese che lascia a casa molti uomini e donne nel pieno della loro maturazione professionale, un paese che lotta quotidianamente con una questione, quella fiscale, che inevitabilmente lo fa precipitare in quella dimensione individualista che poco si sposa con l'idea di paese, di popolo, di nazione. Un paese che decide di mandare al potere uomini anziani, stanchi, controversi, che non cambiano mai, che sono sempre le stesse facce da quasi vent'anni e che sono state le stesse per i cinquant'anni precedenti. Un paese immobile, ripiegato su se stesso, privo di visione e di futuro. Da noi deve ancora nascere un Obama nostrano. Non sappiamo quando si presenterà. E quando si presenterà bisognerà vedere se saremo disposti a prendere l'occasione.
Francesco Della Lunga

Anonimo ha detto...

L'analista internazionale del Corriere della Sera, Lorenzo Cremonesi, sull'edizione odierna del Corriere.it, nel suo articolo dal titolo:"Obama e lo spettro delle Torri Gemelle. Cosa avrebbe fatto il neopresidente democratico se si fosse trovato al posto di Bush l’11 settembre 2001?", conclude con questi due paragrafi, che riporto virgolettati, il suo commento sull'elezioni USA e la futura politica estera degli Stati Uniti:
"[...] Ma c’è una domanda ben più profonda: cosa avrebbe fatto Obama se fosse stato al posto di Bush l’11 settembre 2001? Il sospetto è che probabilmente non si sarebbe comportato troppo diversamente da Bush rimane, compresa l’invasione dell’Iraq. Durante l’estate anche i commentatori americani vicini al campo democratico criticarono la sua «inesperienza» in politica estera, quando, alla domanda sul che fare di fronte alla crescita della presenza talebana e di Al Qaeda delle zone tribali pakistane, lui rispose come se fosse la cosa più naturale del mondo che non avrebbe esitato a bombardare il Pakistan. «Errore madornale», reagirono in tanti, queste cose semmai si fanno, ma non si dicono. Ecco, quella inesperienza è ancora tutta da verificare, certo potrebbe essere stato uno scivolone.
BARACK STIA ATTENTO AGLI ABBRACCI DEL MONDO - Lo giudicheremo con maggior cognizione di causa quando ci avrà rivelato i componenti del suo staff in vista della sua vera entrata alla Casa Bianca a fine gennaio 2009. Vedremo come si rapporterà con David Petraeus, il generale che ha parzialmente contribuito a diminuire la violenza in Iraq e ora si occupa a tempo pieno di Afghanistan e Pakistan. Ma certo l’ombra rimane. Sette anni fa furono in pochi in Europa a non dirsi «americani» di fronte all’orrore del crollo delle Torri Gemelle. Promettevamo simpatia e credito illimitati. Un’alleanza stretta e fedele a Bush nella «guerra al terrorismo». Salvo cominciare il coro di distinguo, titubanze, reticenze e timori già ai primi blitz della guerra in Afghanistan. Un consiglio che si può dare ora ad Obama è forse questo: attento agli abbracci del mondo, e in particolare attento a quelli dell’Europa. Quando vinci sono tutti con te e a parole lo possono essere anche quando lanci appelli di aiuto. Ma in fin dei conti Obama ha vinto grazie a se stesso e alla congiuntura attuale. Al primo momento di vera difficoltà saranno in tanti a giudicarlo. E vedremo cosa risponderanno i nostri governi quando dovesse venirci a chiedere più soldati in Afghanistan o l’impegno economico per investimenti nello scenario caduco e ignoto dell’Iraq. Alle parole seguiranno i fatti? La sorte di Bush è già un memento, se mai ce ne fosse bisogno: quando si muore, si muore soli."
RDF

Anonimo ha detto...

Caro Roberto,
nessuno si aspetta che Obama sia un pacifista gandhiano. Io non credo ad esempio che possa disinteressarsi delle vicende globali. Credo invece e spero che la presenza americana nel mondo possa essere più discreta e più rispettosa del diritto internazionale. La guerra in Iraq è stata un errore tragico, imperdonabile. E' stata una guerra in perfetto stile ottocentesco, una guerra di aggressione. Vorremmo non vederne più di guerre così. Anche perchè non credo che gli USA ne avessero realmente bisogno. Anche se le guerre generano profitti per molti. L'America ha l'occasione unica di rifarsi la faccia e di essere un pò meno odiata. L'azione di una potenza nell'ambito degli organismi internazionali, anche se non impedisce il compiersi di nefandezze e di tutto quanto sta al corollario del potere, può sempre essere accettata diplomaticamente dalla maggioranza degli stati sovrani. La guerra all'Afghanistan è stata fatta con il benestare dell'ONU e nessun paese o quasi nessuno ha avuto la forza, anche se magari ne avrebbe avuto voglia, di schierarsi contro. Quella all'Iraq è stata deliberatamente una guerra di aggressione basata su un casus belli totalmente falso. Si può concedere agli Stati Uniti questo enorme potere di poter fare e disporre del futuro di altre popolazioni come meglio credono? Nonostante siano la culla della democrazia credo di no, e penso che ci si debba ribellare quando questo accade. La "vecchia Europa", che ha concepito nel proprio grembo due guerre mondiali di cui, la seconda, basata su ideologie spaventose (nazismo in primis), dopo essere rinata dalle proprie ceneri anche grazie alla presenza americana, non poteva accettarlo. E bene fecero i leader del tempo, Chirac e Schroeder in testa, tranne ovviamente il nostro ineffabile Berlusconi, a stigmatizzare e rifiutare l'abbraccio di Bush. I popoli servi o privi di sovranità nazionale come il nostro e quelli che si sono solo da poco meno di due decenni liberati dal giogo comunista sono scusabili o almeno giustificabili. Il nostro paese lo è molto meno. Evidentemente noi siamo sempre e lo saremo ancora per molto tempo, un paese a sovranità limitata. La guerra fredda per noi non è mai finita. Noi abbiamo perso una guerra dopo averla provocata e questo evidentemente pesa ancora. Le altre potenze europee, la Gran Bretagna, la Francia, la Germania riunificata, la stessa Spagna, possono dire no agli USA senza alcun timore. Loro sono sovrani sul proprio territorio, noi evidentemente ancora no. Tornando ad Obama, vedremo cosa farà da grande, ma nessuno pensa che saranno tutte rose e fiori. Anche lui dovrà essere giudicato ed anche lui si troverà solo, nei momenti cruciali, proprio come colui che l'ha preceduto. E noi europei, che da sempre non siamo più capaci di dettare una linea, lo aspetteremo al varco. Naturalmente non sarà nostra responsabilità ma tutta sua. L'importante è delegare il proprio destino ad altri.
Francesco Della Lunga