mercoledì 11 giugno 2008

Dialoghi semiseri fra il professor Dire Dawa e Recinto Internazionale, sull’Africa Orientale Italiana

I racconti di Dire Dawa n. 4.
Oggi tocca al nostro Dire Dawa fare qualche domanda a noi di RI. Infatti torneremo più avanti a raccontare del paese africano con le sue meraviglie e la sua complessa semplicità disseminata lungo la “rotta storica”, ma oggi abbiamo deciso di raccogliere qualche riflessione fra noi, che siamo appassionati di questo lontano paese.
Le seguenti foto sono a corredo del racconto del Professore Dire Dawa (le foto sono di Francesco Della Lunga)

Tucul nei pressi di Tis Isat, cascate del Nilo Azzurro, gennaio 2007
Cellulari a Lalibelà, gennaio 2007


1 commento:

Anonimo ha detto...

Oggi tocca al nostro Dire Dawa fare qualche domanda a noi di RI. Infatti torneremo più avanti a raccontare del paese africano con le sue meraviglie e la sua complessa semplicità disseminata lungo la “rotta storica”, ma oggi abbiamo deciso di raccogliere qualche riflessione fra noi, che siamo appassionati di questo lontano paese.
DD: si potrebbe cominciare dall’Oltremare. Insomma, voi italiani, come siete arrivati quaggiù? Non eravate i primi, probabilmente non sarete gli ultimi, forse tornerete a farvi vivi da queste parti (come turisti spero…). Fra gli ultimi arrivati oggi ci sono i cinesi che stanno ricostruendo le “vostre” strade. Sono molto attivi, si sono disseminati un po’ dappertutto. Insomma, tornerete?
RI: l’Oltremare è stata prima un’avventura di stile prettamente ottocentesco, prima che assumesse le vesti più serie di un tentativo di migrazione verso terre lontane. Gli italiani sono arrivati sulle coste eritree, prima ad Assab, negoziando con un sultano locale, poi a Massaua, grazie alle concessioni inglesi che vedevano di buon occhio una presenza italiana nel Corno d’Africa, al tempo dello “scramble for Africa”, iniziato dopo l’apertura del Canale di Suez. Gli inglesi avevano patito alcune sconfitte da quelle parti e non volevano impegnarsi troppo per mantenere il controllo sulla regione, visto che erano già saldamente ad Aden, nello Yemen. Però non volevano neppure lasciare il campo aperto alla Francia. Così, la presenza italiana poteva tornare utile, specie se utilizzata contro le ribellioni che si stavano sviluppando in Sudan. I governi italiani dell’epoca erano ancora lontani dal pensiero di stabilire una vera e propria colonia, almeno fino a che il centro dell’interesse era puntato su Assab. Solo con l’ingresso a Massaua si iniziò a pensare una politica coloniale più seria, più organizzata. Diciamo che si voleva contare in Europa, e per contare in Europa bisognava avere qualche colonia. Nulla di più. L’Italia aveva avuto la sua colonia, così poteva sedersi al tavolo delle potenze rivendicando qualcosa, soprattutto in funzione antiaustriaca. Bisogna pensare che dopo l’unificazione italiana, le attenzioni erano principalmente rivolte verso l’Adriatico e sulla Tunisia. L’Adriatico doveva essere controllato in funzione antiaustriaca, in Tunisia c’era un’importante comunità italiana, ubicata a Tunisi. Nel 1881 i francesi, con il trattato del Bardo, istituirono un protettorato sulla Tunisia. L’Italia subiva l’ennesimo scacco diplomatico (dopo la pessima figura fatta al Congresso di Berlino nel 1878 dove gli inglesi caldeggiarono apertamente la presenza italiana in Egitto e dove il nostro ministro degli esteri, per paura di dispiacere a questa o all’altra potenza, non prese alcun impegno. Si parlò proprio di “politica delle mani nette”, cioè senza prendere nulla), così il successore di quel ministro (Corti, sotto il ministero Cairoli), Pasquale Stanislao Mancini, decise di accettare la proposta inglese e di stabilirsi a Massaua. E’ così che è iniziata la nostra avventura. Correva l’anno 1885.
DD: il fatto che eravate poco convinti, o poco impegnati, è dimostrato anche dai rovesci che le prime guarnigioni italiane subirono, prima fra tutte Dogali (1887).
RI: è proprio così infatti. Diciamo che, per dirla con Labanca, uno degli storici più importanti del periodo coloniale italiano, fu il risultato di una serie di vicende economico – politiche che si svilupparono verso la fine della seconda metà dell’Ottocento: le scoperte geografiche dell’ultimo lembo d’Africa, favorite dai viaggi di alcuni italiani (per citarne alcuni, Massaia, Bianchi, Bottego, ed altri, missionari ed avventurieri) che si avventurarono per l’Africa Orientale alla ricerca degli ultimi segreti, la nascita del Nilo, la scoperta del fiume Omo ed altri interessanti dilemmi geografici del tempo. Da questo punto di vista, le società geografiche svolsero un ruolo determinante, ma erano tutto sommato poche e potevano contare su appoggi ristretti, se si pensa che la classe politica del tempo era assai esigua ed esiguo era il corpo elettorale. Questo significa che l’avvento italiano in Africa era dovuto essenzialmente a ragioni portate avanti da una ristretta elite di persone e non aveva in nessun modo il carattere “nazionale” che avevano avuto gli altri imperi coloniali, quello inglese e francese ma anche quello spagnolo e portoghese. Per questo le vicende africane erano assai poco conosciute dalla popolazione e non facevano parte del dibattito politico del tempo. Insomma, erano assai sfumate nella coscienza generale degli italiani. Si andava in colonia solo per fare carriera, o per spirito di avventura. Questa era la situazione. Non si trattava dunque di un coinvolgimento generale di un popolo. Questo avrebbe dato maggiore forza alla presenza italiana. Invece era, come spesso è accaduto nella storia di questo paese, un movimento assai estemporaneo.
DD: Nel 1896, la sconfitta di Adua ridimensionò effettivamente le aspirazioni italiane….
RI: Esattamente. Gli italiani ripararono al di qua del Mareb, che segnava il confine con l’Etiopia di Menelik e fortificarono la colonia che, nel frattempo, aveva cominciato ad avere finanziamenti e…italiani. Il Governatore Ferdinando Martini, che vi rimase per dieci anni, dal 1896 appunto, contribuì a rafforzare la colonia ed a svilupparla.
DD: dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale avete abbandonato ogni velleità.
RI: d’altra parte bisogna pur pensare che un periodo storico, denso di sogni ma anche assai velleitario, si era concluso. L’Italia aveva perso la guerra, e con quella perse anche le sue colonie. In realtà, i governi De Gasperi provarono a negoziare con le potenze un trattato di pace che fosse meno duro di quello che venne poi approvato a Versailles. Si cercò infatti di mantenere le colonie già possedute prima dell’avvento del Fascismo. Ma la risposta fu negativa. Venne solo concessa l’amministrazione fiduciaria della Somalia, dal 1950 al 1960 come contentino. Sappiamo poi che cos’è accaduto in Somalia, uno stato che ormai non esiste più. L’Italia aveva chiuso il suo percorso risorgimentale con la Prima Guerra Mondiale. Però non era cresciuta. Si era affidata ad un uomo fatale. Quell’uomo fatale inevitabilmente, l’avrebbe portata alla sconfitta. Poi si è risollevata, ed ha piano piano iniziato a camminare da sola. Poi è arrivata l’Unione Europea che ha tolto qualche altro alibi ai problemi che tutto sommato attanagliano ancora il paese. Però è cresciuta e si è sviluppata. Da un paese ridotto in miseria, in cinquant’anni si è passati ad uno dei paesi più ricchi del pianeta, inteso come benessere diffuso su tutte le fasce della popolazione. Anche se ci sono ancora tantissimi problemi, se paragoniamo l’Italia ai tanti paesi che stanno sulla nostra Terra, credo che abbia fatto passi enormi.
DD: purtroppo noi non possiamo dire la stessa cosa. Vi basta venire quaggiù per vedere quello che eravate voi, cent’anni fa.
RI: diciamo anche centocinquant’anni fa. La cosa più bella dell’Etiopia è proprio questa infatti: se volete capire chi eravamo un bel po’ di decenni fa, fatevi un viaggio: ritroverete le vostre origini: poche strade, pochissime auto, un po’ di camion che fanno in lungo la tratta che va da Asmara ad Addis Abeba, per poi rientrare a Djibouti. Molti muli, qualche cammello, un’intera popolazione che si sposa a piedi, in perfetto stile africano. Oppure verso la Somalia, a sud, e verso il Kenia. Nel mezzo la natura affascinante, che domina e regola la vita delle popolazioni. Diverse etnie, in alcuni casi vere e proprie tribù che seguono ritmi di vita sempre uguali, da millenni (sud, regione del Kaffa e dei Popoli del Sud, al confine con il Kenia, fiume Omo). La religione cristiana ortodossa, che regola gran parte della vita delle popolazioni dell’altopiano. La semplicità. La mancanza di un’anagrafe, un comune, una burocrazia statale nella stragrande maggioranza dei villaggi sperduti del Goggjam, dell’Amhara, del Wollo, del Tigray. Villaggi di capanne sparsi in tutto l’altopiano. Avete sognato i pellirosse quando eravate bambini? Quaggiù gli uomini non sono rossi, sono scuri, ma troverete i villaggi con le capanne, proprio come nell’Ottocento americano. Potrete vedere lavorare il ferro come nel nostro Medioevo, lungo la strada che collega Bahir Dar a Gondar. Parlando con le guide scoprirete che alcuni di loro non sanno neppure che l’Etiopia esiste come stato sovrano. E non sempre si capiscono alla perfezione, anzi, in molti casi non si capiscono proprio. Ma proprio in un posto come questo scoprirete che Internet, nonostante tutto è arrivato anche quaggiù, anche a Debark ed a Lalibelà. Un viaggio bellissimo, dove il tempo sembra essersi fermato e dove ognuno di noi può ritrovare le proprie origini, lontano da ogni richiamo alla mondanità, lontano dallo sfarzo, di fronte alla semplicità del vivere quotidiano. Troverete animali, puzzo di sterco, mosche, odore di terra rossa. Frugalità. Anche noi eravamo così, un tempo non molto lontano. Ma non avevamo internet ed i cellulari. I privilegiati li hanno anche da queste parti. Se passate per Lalibelà e vedrete l’Abuna, noterete che porta con se, con malcelato orgoglio, un nuovissimo Nokia. Ma a parte queste sporadiche apparizioni, torneremo davvero indietro nel tempo. Come dice lo storico Labanca, nel suo libro “Oltremare”, parlando dei prodromi della partenza verso l’Oltremare, parola magica che evoca sogni e terre lontane, non c’era bisogno di andare in Africa perché l’Africa, l’Oltremare, ce l’avevamo in casa nostra, e non era necessario spingersi oltre Suez per trovarlo.
RI.