lunedì 7 aprile 2008

Viaggio in Africa. Alla ricerca del passato ed alla scoperta di un paese unico: l'Etiopia

I racconti del Professor Dire Dawa
Numero 2 -

1 commento:

Unknown ha detto...

Introduzione
Mi sono spesso chiesto per quale ragione, voi italiani, vi interessate ancora delle vicende africane. Poi, discutendo con alcuni di voi, per lo più turisti che capitano da queste parti, ho scoperto che in realtà vi interessate ancora delle vicende del nostro antico, quanto disagiato ma ancora assai orgoglioso, popolo etiope. Dunque non dell’Africa tout court ma del Corno d’Africa, dove il giovane Regno d’Italia, con riluttanza, con un disegno assai disomogeneo, e però sempre più concreto, spinto, come spesso è accaduto nelle vicende del vostro stato, da un pugno di politici senza molti scrupoli ma desiderosi di contare al tavolo delle potenze del tempo, era approdato. Avevate gettato le ancore nella baia di Assab, oggi Eritrea, nel lontano 1869 acquistando, quel lembo di terra da un sultano locale, per conto della compagnia genovese Rubattino. Ma dietro la Rubattino c’era in realtà uno dei governi della Destra Storica che desiderava ultimare l’unità nazionale anche lavorando su scenari diversi dalla penisola, spingendosi in luoghi dove gli italiani non avevano nessuna familiarità. Fu così che nacque la vostra vicenda africana, chiusa circa settant’anni dopo, al termine della Seconda Guerra Mondiale. Sono passati ormai diversi decenni da quel tempo, eppure mi stupisco ancora nel trovare italiani che vengono da queste parti, spinti dalla curiosità di conoscere dove erano stati i loro nonni e dalla voglia di vedere che cosa era rimasto. Come ho avuto modo di accennare nel primo intervento fatto per Recinto Internazionale, oggi non è rimasto nulla o quasi di quel tempo. Diciamo che non è rimasta quella memoria storica che avrebbe fatto forse da collante fra la nuova Repubblica Etiope e la Repubblica Italiana. Gli italiani che sono rimasti ad Addis Abeba sono italiani di seconda o terza generazione e vivono assai integrati. La maggioranza se n’è andata da tempo. Allora ho capito che gli italiani non vengono quaggiù spinti dal richiamo “coloniale”, scomparso a tutti gli effetti e tutt’al più ancora vivido nella memoria di coloro che hanno attraversato quell’epoca. L’Italia degli anni Trenta non esiste più, non vi sono più masse di persone che emigrano alla ricerca di una vita migliore. Si torna o si va in Africa per altre ragioni. In questo lembo d’Africa, un po’ dimenticata, si arriva soprattutto per turismo anche se gli italiani potrebbero anche fare buoni affari. Leggendo fra la vostra storia, ho trovato l’introduzione ad un libro che scrisse Leopoldo Franchetti, nel 1930, che si intitolava “Nella Dancalia Etiopica”, pubblicato da Mondadori. In quella introduzione Franchetti scrisse (riporto interamente il testo): “Figliuoli, a voi dedico questo libro: oggi siete piccoli, eppure ogni qual volta ritorno dai miei pellegrinaggi mi chiedete che vi parli dell’Africa, e volete sapere, sapere tante cose. Aspettate, piccoli miei; quando potrete leggere questo volume, comprenderete perché vostro padre al cader delle foglie autunnali sentiva la necessità di partire e dirigersi verso il sud. Vorrei che di questo mio male, che mi perseguita da circa quattordici anni, foste anche voi un po’ intaccati. Vi ho chiamato con tre nomi di quei paesi: Simba, Lorian, Nanuchi; ognuno di questi nomi ha un significato. Viaggiate, state più che potete vicino alla natura, al contatto del sole e della luce; il vostro carattere, i vostri pensieri risentiranno i benefici di queste tre magnifiche creazioni di Dio, perché purtroppo un giorno, e ve lo auguro il più tardi possibile, dovrete anche voi per necessità di cose frequentare quell’esistenza convenzionale a base di attivismi mondani, dove non troverete che luci artificiose, buone per abbagliare i deboli. Ma allora voi sarete temprati, perché la vita del sud vi avrà insegnato a distinguere ciò ch’è vero da ciò ch’è menzogna”. Pare proprio che molti di voi, corrotti dalla vita mondana e dalla disponibilità di beni e di denaro siano alla ricerca di qualche emozione. Devo dire che il mio paese è ancora assai diverso dal vostro. Il nostro popolo non è corrotto, essendo ancora assai ingenuo. Da noi i rapporti familiari sono ancora importanti; le nostre comunità sono ancora forti. Amiamo la nostra dura natura e gli animali. Viviamo di cose semplici, il popolo è ancora in larga parte analfabeta e povero anche se nelle principali città vedrete i ragazzi che frequentano le scuole in divisa verde e troverete scuole anche nei più sperduti villaggi. Lo sforzo di alfabetizzazione da noi è imponente e darà dei frutti. Ma anche qua esistono tutte quelle “mondanità” che oggi sono il principale connotato del ricco ed opulento Occidente, o Nord del pianeta. Ho pure scoperto che i vostri cittadini che vengono da noi se ne tornano a casa felici, assai felici di aver visto l’Etiopia, il paese che oggi, con un motto ben azzeccato, offre “thirteen months of sunshine”, tredici mesi di sole. Perché forse saprete, o non lo sapete, che noi non abbiamo il vostro calendario gregoriano. Da noi vige il calendario giuliano che è composto da dodici mesi di trenta giorni ed un mese di cinque. In tutto tredici mesi. Come dicevo, i vostri connazionali rimangono affascinati da un viaggio sull’altopiano. E spesso ci ritornano. Per questa ragione, invito tutti i lettori di Recinto Internazionale, se avrò l’abilità di coinvolgerli, ad effettuare un viaggio in un paese che abbina le savane al gran rift ed ai picchi di quasi cinquemila metri del Simien. Manca il mare, ma c’è il lago Tana, la sorgente del Nilo Azzurro . Inizierò a raccontarvi delle vicende della nostra capitale, com’è nata e come si presenta oggi. A presto,
Dire Dawa.

Una visita nella capitale
La nostra capitale si chiama Addis Abeba che in lingua amhara significa “nuovo fiore”. E’ la città più grande e più importante del paese, ne è al centro geografico e fa parte della provincia dello Scioa o Shewa. Gli italiani più anziani ricorderanno che Menelik II, il fondatore, era chiamato proprio ras Menelik dello Scioa, prima di diventare imperatore. La città è stata fondata alla base della montagna di Entotto per volere della Regina Taitù, nel 1906. Si narra che la Regina, che aveva una residenza in una zona termale nelle vicinanze, desiderasse scendere a valle dal monte Entoto a causa dell’umidità. Fu così che nacque, attorno alla residenza imperiale la capitale che oggi è indiscutibilmente la capitale africana più importante, da un punto di vista politico. Da noi ci sono più di ottanta rappresentanze diplomatiche e la sede dell’Unione Africana. Nonostante tutto questo, stiamo cercando di diventare una capitale che può offrire anche un futuro diverso al nostro popolo. Infatti, il viaggiatore occidentale che arriva al Bole International Airport può rimanere affascinato da un lato, vedendo i progressi che abbiamo fatto negli ultimi anni, ma anche scioccato se è abituato a viaggiare nel vostro Occidente. Parlando con alcuni turisti ho notato che considerano la nostra capitale come una città in chiaroscuro, con palazzi sfarzosi e miseria sparsa un po’ dappertutto. Non è proprio così, siamo ancora un popolo in fase di crescita e non abbiamo tante risorse, ma riusciamo ancora, nonostante i nostri pochi mezzi, ad essere ospitali. Abbiamo il più grande mercato africano. Ma i contrasti sociali da noi sono ancora molto, molto forti. Anche noi abbiamo vissuto e stiamo ancora vivendo il disagio di chi arriva dalle campagne spinto dall’idea di trovare un lavoro. E così anche ad Addis si sono create delle vere e proprie baraccopoli, non solo intorno alla città, ma anche al suo interno, fra una collina e l’altra. Solo le strade principali sono asfaltate. Abbiamo abbracciato anche il sogno infranto dell’internazionalismo proletario, quando da noi non c’erano proletari e non c’era neppure un’ipotesi di classe lavoratrice, per come l’avete teorizzata in occidente. In realtà da noi è accaduto che, nel tentativo di cacciare chi ci aveva governato per molti anni, il nostro ultimo Negus Neghesti, Haile Selassiè, abbiamo introdotto un male assai peggiore. Il Derg, poi comandato dal colonnello Menghistu Haile Mariam non ha risolto nessuno dei nostri problemi. E non ha risolto neppure il problema delle nostre etnie che anche recentemente hanno lacerato la nostra società. Le tensioni fra gli Oromo (quelli che voi chiamavate Galla) e gli Amhara si sono riacutizzate negli ultimi anni, sotto il governo di Meles. Ma nel periodo del Derg non avevamo risolto nulla. La nostra capitale è davvero una capitale o meglio una città africana in chiaroscuro ma in costante evoluzione. Ma viaggiare nel nostro mondo può sempre riservare tante sorprese, come dicevo, per chi non è più abituato a vivere a contatto con queste realtà. Credo che gli straniere in generale, e gli italiani in particolare, soprattutto se hanno un’età matura, possano rimanere realmente affascinati da un viaggio nella nostra terra. Perché qualcuno di voi può rivivere una parte della propria infanzia, quando il vostro paese non era ancora sviluppato come lo è adesso. Quando per le strade si incontravano muli e cavalli. Ma forse per voi bisogna tornare ancora più indietro. Diciamo che nel nostro paese, non essendoci ancora reti di comunicazione e di infrastrutture, si coglie ancora la genuinità di una vita frugale ed avara di beni materiali. Per questa ragione la spiritualità che pervade la maggior parte delle nostre popolazioni è ancora intatta e genuina. Il vostro viaggiatore che viene dalle nostre parti può ancora assaggiare la vita di un tempo. Anche nella nostra capitale in chiaroscuro. I commerci si notano un po’ da tutte le parti. Troverete di tutto: dai punti internet ai caffè alle capanne dove si vende un po’ di mercanzia varia che va dal cibo ai vestiti. Scoprirete che i beni che girano per le nostre città sono ancora poveri in termini di qualità, ma molto dignitosi, soprattutto gli abiti. Se siete abituati al taglio degli abiti ed alle cuciture ad altissima qualità non comprerete nulla da noi. Ma se siete affascinati dai tessuti damascati e dai colori allora troverete quello che fa per voi. Gli etiopi, da secoli, non sono abituati a ricevere grandi visite da parte degli stranieri. Per cui troverete anche molta curiosità attorno a voi. Questo soprattutto se uscirete dalla capitale e comincerete a viaggiare nell’interno del paese. Anche se internet si è diffuso, soprattutto nei centri principali, siamo ancora un popolo che vive su un altopiano vastissimo e che non ha vie di comunicazione sviluppate. Abbiamo pochissime strade, alcune delle quali costruite proprio nei fugaci anni del colonialismo italiano. Alcune di queste sono state recentemente ripavimentate da ditte cinesi. I cinesi stanno facendo affari in tutto il continente, anche da noi. La maggior parte delle strade, ancora in terra battuta, diventano difficilmente praticabili durante la stagione delle piogge. E questa è anche la ragione della nostra curiosità nel vedere ospiti tanto diversi da noi. Per andare da Gondar ad Axum, nel nord del paese, impiegherete una giornata intera di autobus. Il tratto da coprire è di circa 300 chilometri. E’ come fare un tuffo nel passato. Attraverserete l’altopiano, con l’unica strada che taglia le montagne, in un susseguirsi di tornanti e saliscendi. Ma non sarete mai troppo soli. Il nostro popolo è sempre in viaggio e vi accompagnerà lungo tutto il tragitto che percorrerete. Se avrete modo di fermarvi, anche per sgranchirvi le gambe e per mangiare qualcosa, scoprirete che le nostre popolazioni sono diverse e lo noterete non solo dai tratti somatici, in alcuni casi abbastanza evidenti, ma soprattutto per il modo di vestire. Credo di aver dato alcuni sprazzi con tinte di vario colore sulla tela che rappresenta il nostro paese. Lasciamo la capitale, nella quale potrete trovare, oltre alla nostra proverbiale ospitalità, con la cerimonia del caffè che non dovrete perdere, i resti dell’ominide più antico del mondo, la “Lucy” da noi chiamata “Dinkinesh”, ovvero “sei meravigliosa”, il Gran Ghebbì di Haile Selassiè, il Merkato, il circolo della Juventus. In fondo il bello del nostro paese, e quello che induceva Leopoldo Franchetti a viaggiare da queste parti era probabilmente altro. Erano probabilmente la semplicità, i colori, la natura, i suoi cicli e gli uomini che ad essi si adattavano. Nonostante l’Italia di allora fosse per molti versi più vicina a noi che non l’Italia di oggi. Ma i sapori ed i contrasti sono rimasti molto forti. L’odore della terra, che vi fa tornare bambini. La semplicità, la dignità, la spiritualità dei nostri popoli sono ancora oggi un piatto troppo forte per chi ama l’umanità semplice. Andate a Gondar, a Debark, ad Adi ar Kai, ad Adua. Troverete qualcuno che vi dirà che ha partecipato alla battaglia di Adua. Non dategli troppo ascolto, in fondo sono passati più di cent’anni da allora.
Dire Dawa