domenica 23 agosto 2009

Notizie dal Mediterraneo: 70 eritrei scomparsi al largo della Sicilia

Repubblica, 22 e 23 agosto 2009. Circa 70 migranti eritrei vagano per venti giorni nel Mediterraneo a sud del canale di Sicilia e trovano la morte. L’Italia e Malta non intervengono. A cura di Francesco Della Lunga

6 commenti:

Francesco ha detto...

La notizia è stata data dai principali quotidiani nazionali, Repubblica ed il Corriere della Sera, due giorni fa, quando sono stati raccolti, in un barcone di oltre 16 metri, 5 cittadini eritrei che stavano cercando di compiere l’ennesimo viaggio della speranza. Secondo le prime notizie, basate sulle dichiarazioni fatte dai sopravvissuti, perché effettivamente è difficile negare che di questo si tratti, gli eritrei o, secondo la nuova e contestata legge italiana, i “clandestini”, avrebbero vagato per le acque del canale di Sicilia per circa venti giorni senza essere soccorsi, nonostante avessero incrociato in più occasioni pescherecci e mezzi della guardia costiera maltese. Gli eritrei, oltre ad essere uguali a tutti i migranti che attraversano il tratto di mare che separa l’Africa dall’Italia e quindi, nella stragrande maggioranza dei casi, accomunati da un destino infame nella loro patria d’origine, fanno anche parte della recente storia nazionale ed è su questo punto che forse i nostri concittadini dovrebbero interrogarsi un po’ di più, visto che l’Italia, per circa settant’anni, è stato non solo il paese colonizzatore, ma anche quello che ha in qualche modo contribuito alla creazione di una coscienza nazionale eritrea. L’Eritrea è oggi uno dei paesi più poveri dell’Africa, anche se è dotata di alcune strutture ed infrastrutture non proprio usuali per un paese del Corno d’Africa. Il Calendario Atlante de Agostini 2009, nell’indicare i principali dati socio politici del paese, riporta l’indice di sviluppo umano, utilizzato dalle Nazioni Unite dal 1993 assieme al PIL, per indicare il livello di benessere di un paese, ad un valore di 0,483 (157° posto su 192 Stati membri. Per una interessante descrizione sulle vicende relative agli ultimi arrivati alle Nazioni Unite, si veda anche http://portale.italradio.org/modules.php?op=modload&name=Sections&file=index&req=viewarticle&artid=57&page=1) . Inoltre il paese, anche a causa dell’ultima guerra con l’Etiopia ufficialmente terminata nel 2000 (pace di Algeri), ha subito un ulteriore isolamento internazionale, essendo ormai in conflitto diplomatico con quasi tutti i paesi dell’area oltre che con larga parte dei paesi africani che, in qualche modo, guardano all’occidente. Il presidente eritreo, Isaias Afewerki ed il suo governo, sono accusati dal grande rivale e nemico, l’Etiopia, di fomentare i gruppi fondamentalisti di Al Quaeda in tutta la regione del Corno, soprattutto in Somalia, dove i gruppi islamici si stanno contrapponendo all’attuale governo somalo, insediatosi solo negli ultimi mesi a Mogadiscio dopo anni di esilio a Nairobi, e sostenuto dalla comunità internazionale. E’ difficile pensare che gli eritrei, che fra l’altro possono anche vantare uno status particolare in virtù della loro appartenenza alla ex colonia, ricordato oggi da Repubblica in un editoriale di Eugenio Scalfari, e che sono presenti da tempo in virtù dell’antico legame nel nostro paese, non desiderino fuggire da un paese povero e dove non esiste alcun accenno di libertà e democrazia. E’ assai triste invece constatare che il nostro paese, oltre ad avere una coscienza storica minimale, ha da tempo deciso di mandare la ragione in soffitta per affidarsi ad istinti che poco hanno a che fare con l’umana pietà, dimenticando totalmente quello che anche gli italiani hanno sofferto all’estero e le ragioni che avevano portato a farci diventare un popolo di migranti.

Per chi fosse interessato ad approfondire sommariamente l’epoca del colonialismo italiano in Eritrea, si può leggere il successivo articolo sull’opera di Ferdinando Martini, Governatore d’Eritrea in Asmara, fra il 1897 ed il 1907. L’articolo, di Francesco Della Lunga, è stato pubblicato sulla rivista “Microstoria”, Nuova Toscana Editoriale, 2004.
Francesco Della Lunga

Francesco ha detto...

La figura di Ferdinando Martini, politico ed umanista, in Asmara (1897-1907).


Percorrendo le strade di Firenze, si trovano molto spesso riferimenti a personaggi che sono entrati a pieno titolo nella storia del nostro paese. Uno di questi è indubbiamente Ferdinando Martini, a cui il comune di Firenze ha dedicato una strada nel quartiere di Campo di Marte.
Nato a Firenze nel 1841, eletto deputato nel parlamento nazionale nelle file della sinistra e politicamente vicino a Zanardelli, futuro capo del governo, il Martini, nel corso della sua carriera, ricoprì numerosi incarichi pubblici, passando da ministro dell’istruzione (1892) a ministro delle colonie (1915-1919), con l’importante intermezzo della missione in Eritrea. Personaggio poliedrico e dotato di grande cultura, fu anche commediografo, letterato e giornalista. Morì a Monsummano (Pistoia) nel 1928 dopo una carriera politica contrassegnata da alcuni importanti successi, ma anche da polemiche sul tema dominante a quel tempo, ovvero la presenza italiana in Africa. Inizialmente contrario all’avventura coloniale, finì progressivamente per accettare la presenza del nostro Paese nel continente nero, fino a coronare la sua personale parabola con un successo diplomatico ed il rafforzamento della colonia.
Tralasciando gli aspetti più spiccatamente letterari che contraddistinsero la sua figura, si vuole ricordare qui il contributo che seppe dare alla politica estera italiana, in coincidenza con la sua nomina, da parte del governo Di Rudinì, a Governatore dell’ Eritrea, la colonia “primogenita”.

Con la sconfitta dell’Amba Aradam prima (dicembre 1895) e di Adua poi (marzo 1896), il governo italiano, presieduto dal deputato siciliano Francesco Crispi, si trovò nell’occhio del ciclone per le mal pianificate e superficiali azioni di guerra condotte contro i tigrini e fu costretto alle dimissioni. Il suo successore, Di Rudinì, decise di “normalizzare” la situazione politica in Etiopia, consolidare la posizione italiana in Eritrea e spengere temporaneamente i riflettori sulla nostra avventura africana, caratterizzata da non poche ombre e contrassegnata da una condotta militare che aveva suscitato continue polemiche fra gli schieramenti politici.
Questo obiettivo doveva essere perseguito attraverso alcuni passaggi cruciali: sostituzione del Generale Baratieri con il Generale Baldissera, nomina di un Governatore Generale in Eritrea con passaggio dei poteri da un’amministrazione militare ad un’amministrazione civile, normalizzazione dei rapporti con l’Etiopia di Menelik, consolidamento e sviluppo delle attività italiane nella colonia “primogenita”. Il tutto doveva avvenire chiudendo al più presto le polemiche suscitate dalla disastrosa sconfitta di Adua, la prima in assoluto di un esercito europeo nei confronti di un popolo di colore, ritenuto inferiore .
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Francesco ha detto...

La sconfitta italiana ad Adua, nonostante il clamore che suscitò negli ambienti politici e militari, ad una più attenta analisi, poteva almeno essere minimizzata o addirittura evitata, ma avrebbe certamente richiesto un tributo di sangue elevato se si considerava che la struttura sociale e militare etiope aveva un retaggio di circa tremila anni e che tutti gli uomini di Menelik erano abituati alla guerra. Ed invece, come messo in luce anche dalla commissione di inchiesta nominata da Roma, la sottovalutazione del nemico era stata totale, la mancanza di informazioni sul territorio pure. L’opinione prevalente nelle gerarchie militari rispetto agli uomini del Negus era quella che li identificava in un pugno di uomini male armati e scarsamente preparati. L’Etiopia era l’espressione di una civiltà contraddistinta da regole e precetti precisi, quasi unica nel panorama africano del tempo, la cui nascita si legava alla leggenda di re Salomone e della regina di Saba e che ancora oggi rappresenta un efficace caso di affermazione di uno stato moderno nel cuore dell’Africa continentale. La sconfitta italiana, secondo una storiografia ormai consolidata, avrebbe peraltro rappresentato il preludio al processo di decolonizzazione che sarebbe iniziato da allora e chiuso entro pochi decenni. A conferma dell’eccessiva sottovalutazione condotta da altre potenze europee nelle loro guerre coloniali, si cita anche la successiva sconfitta dell’esercito russo contro i giapponesi (guerra russo-giapponese, 1904-1905) che suscitò ancora più grande scalpore.

Ferdinando Martini venne dunque nominato dal nuovo governo Di Rudinì nell’incarico di Commissario Straordinario dell’Eritrea, fino a divenirne, in un secondo momento, Governatore Generale. Il suo incarico ebbe una lunga durata, dal 1897 al marzo 1907. Il più importante storico del colonialismo italiano, Angelo Del Boca, traccia di Martini il seguente profilo: “Conclusa l’annosa e sanguinosa vertenza con l’Etiopia di Menelik, e instaurato in Eritrea un governo civile, presieduto da un personaggio di alto livello come Ferdinando Martini, letterato, filologo, politico accorto, futuro ministro delle Colonie, l’Eritrea entrava in un periodo di pace che favoriva i viaggi e consentiva di tracciare della colonia i primi bilanci di valore scientifico” .

Effettivamente, sotto l’impulso del Re e di Sonnino, futuro capo del governo durante gli anni del giolittismo e ministro degli esteri italiano che legherà il suo nome al cruciale Patto di Londra (aprile 1915), gli obiettivi che erano stati indicati al Martini erano pochi ma precisi: innanzi tutto occorreva far cessare le polemiche sulle spese che l’amministrazione della colonia comportava e giustificarne l’esistenza, proprio alla luce del peso che questa esercitava sul bilancio statale. Occorreva trovare la giusta misura che coniugasse le ambizioni dei nazionalisti, protese verso le conquiste coloniali, e dei ministri del Tesoro che dovevano fare i conti con bilanci espressione di un economica nazionale ancora in fase di decollo e priva di grandi risorse, e di quella parte dell’opinione pubblica, sostenuta dai rispettivi rappresentanti parlamentari, che riteneva inutile la presenza italiana in Africa. Fra questi si trovavano sia coloro che contestavano il colonialismo italiano per motivi politici, sia quelli che valutavano i vantaggi che queste imprese potevano comportare e fino ad allora, di vantaggi ve n’erano stati ben pochi.
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Francesco ha detto...

In verità, le polemiche sulle spese pubbliche per l’amministrazione della colonia erano ricorrenti; esse erano dovute non solo alla dialettica in seno al parlamento fra maggioranza ed opposizione, ma anche alle diverse correnti di pensiero che vi trovavano espressione e che erano trasversali agli opposti schieramenti. Da un lato, infatti, la posizione di coloro che avevano ereditato le posizioni della Destra Storica ma anche alcuni esponenti della Sinistra esprimeva l’inutilità di una presenza italiana in una zona povera, priva di risorse naturali, di fatto già circondata dalle altre potenze; dall’altro, si riteneva impossibile per l’Italia non partecipare all’ultima corsa per la spartizione dell’Africa dal momento che, senza colonie, non sarebbe mai stato possibile, per l’Italia, sedersi al tavolo delle potenze. La politica di potenza era sempre in primo piano e le colonie erano un importante strumento per la sua affermazione. Ma le polemiche venivano purtroppo alimentate dalle sconfitte, seppur sporadiche ma pur sempre significative, subite dal nostro esercito, nonostante il livello di preparazione militare e di armamenti ritenuto di gran lunga superiore a quello degli indigeni. Queste facevano inevitabilmente spostare l’attenzione sulle colonie, rinfocolando il dibattito sull’opportunità o meno di una nostra presenza e rendendo così più difficile il compito dei funzionari e degli amministratori in loco.
La sconfitta di Adua, per le dimensioni e per le modalità con le quali era maturata, rappresentò l’evento fondamentale che mise per la prima volta in seria discussione la nostra presenza in Africa.
In questo difficile contesto, Martini si trovò spesso in polemica con Roma, a causa degli scarni finanziamenti ricevuti e inidonei per portare avanti il programma di sviluppo interno che si era prefissato. La ferrovia che doveva collegare Massaua ad Asmara era uno dei suoi punti prioritari. Spesso lamentava lo scarso appoggio che riceveva da Roma ed anche la poca lungimiranza dei parlamentari; fra i suoi sostenitori, importante fu la posizione assunta dal Sonnino, secondo il quale non si doveva indietreggiare dai territori acquisiti in Eritrea ed era assolutamente indispensabile rimanere “aggrappati” alla colonia, in attesa di sviluppi politici migliori.
Il deputato di Monsummano seppe comunque riorganizzare la struttura amministrativa della colonia, svilupparne i commerci , profondersi in iniziative di pace con l’Etiopia, raggiungerla, e contare su un periodo di relativa calma in una colonia che aveva vissuto ben altre turbolenze. Certamente questo periodo di tranquillità fu reso possibile da una serie di avvenimenti nazionali ed internazionali che aiutarono non poco il governatore; si pensi ad esempio allo spegnersi del dibattito politico sull’utilità delle colonie e dal lungo lavorìo diplomatico condotto dai governi italiani che portarono al riavvicinamento con la Francia e la Gran Bretagna, iniziato dall’abile diplomatico Emilio Visconti Venosta e sancito dagli accordi siglati in gran segreto da Prinetti, nel 1903, nonostante la presenza dell’ormai ingombrante Triplice Alleanza.

Dopo il primo anno dalla nomina, passato a chiudere le emergenze e a fare il punto sulle attività economiche ed amministrative della colonia, il Martini comprese che poco o nulla si era fatto, fino ad allora. Nulla almeno che potesse avere una ricaduta economica significativa e tale da diminuire il peso delle risorse pubbliche da destinare allo sviluppo di Asmara. Gli sprechi e le ruberie condotte anche dal personale militare erano frequenti e soprattutto inutili apparivano gli innumerevoli approvvigionamenti ad uso militare stoccati nei depositi . Ma anche il malcostume che accompagnava la vita militare cadde sotto l’occhio critico del Martini. Per riorganizzare la vita nella colonia e favorirne lo sviluppo morale e civile, occorreva infatti che vi regnassero “ordine, disciplina, giustizia, economia” .
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Francesco ha detto...

Seguendo questi precetti, Martini varò una serie di decreti che riorganizzavano i compiti e le competenze dei funzionari dello stato, puntando ad una netta separazione fra i compiti militari e quelli civili. Le attribuzioni al personale civile assumevano sempre maggiore importanza, fino a porre sotto la responsabilità del Governatore l’operato dell’esercito. In base al nuovo ordinamento, il Governatore civile dipendeva dal ministero degli Esteri; aveva alle sue dipendenze il comandante delle truppe e quello della stazione navale del Mar Rosso, formulava un bilancio annuale che veniva sottoposto al Parlamento. L’Eritrea venne divisa in province rette da commissari civili; venne infine varata una prima pianta organica di tutta l’amministrazione della colonia.
Questi decreti contribuirono a ridare maggiori certezze sui compiti da affidare ai funzionari, crearono una effettiva separazione di responsabilità, posero le basi per una diminuzione significativa delle spese di amministrazione della colonia. Tuttavia, per poter passare al secondo punto, quello più ambizioso, di sviluppare l’economia e rendere Asmara in qualche modo un po’ più indipendente dalle risorse nazionali, occorreva contare su degli stanziamenti più rilevanti, rispetto a quanto destinato da Roma. Per questa ragione, Martini non riuscì nell’intento di completare la ferrovia da Massaua ad Asmara. Ma mentre sulla ferrovia dovette riscontrare un parziale insuccesso, sulla questione dei confini, la determinazione dell’uomo di Monsummano ebbe la meglio sulle incertezze romane. Fedele alla sua politica di buon vicinato con Menelik, affermò in più occasioni che l’Italia non doveva espandere la propria presenza nella regione, ma non doveva neppure retrocedere dalle zone in cui era arrivata. Per Martini il confine “doveva rimanere sul Mareb” e sul Mareb vi rimase, vincendo le perplessità di Roma, dell’incaricato Ciccodicola presso Addis Abeba e di Menelik.
Peraltro, i rapporti con il negus etiope furono connotati dal rispetto, guadagnato da Martini proprio in occasione di alcuni importanti eventi che avrebbero contrassegnato il futuro dell’Etiopia. Questi eventi furono il tentativo di ribellione di ras Mangascià e la morte di ras Maconnen, il più fidato fra gli uomini del negus. In questa situazione, Martini avrebbe potuto benissimo allearsi con Mangascià nel tentativo di espandere l’influenza italiana sull’altopiano e rifarsi dell’onta di Adua e mettere sotto pressione Menelik, minacciato da uno dei ras più potenti. Invece Martini, seguendo la sua politica di buon vicinato e di non espansione, mantenne una posizione neutrale durante la ribellione di Mangascià e si guadagnò così il rispetto dell’Imperatore. La sua correttezza venne scalfita dall’azione diplomatica condotta da Roma, proprio alla vigilia del suo viaggio ad Addis Abeba per incontrare Menelik. Infatti, dopo la morte di Maconnen ed in previsione delle lotte di successione che si sarebbero aperte, le tre potenze europee con mire in Etiopia, Italia, Francia e Gran Bretagna, si ritrovarono a Londra per concordare l’eventuale spartizione dell’Etiopia in zone di influenza, contando sull’indebolimento politico e fisico del leader abissino (1906).
La notizia della morte di Maconnen e quella del patto siglato fra le potenze misero Martini in una difficile posizione, proprio quando l’ingresso al “Gran Ghebì” si prospettava carico di onori. Ciò nonostante, il governatore riuscì ad ottenere alcuni importanti accordi commerciali, ed a coronare la visita con un indubbio successo personale.
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Francesco ha detto...

In definitiva, l’operato di Ferdinando Martini in Africa Orientale venne coronato da successo, dopo un passato coloniale di disavventure politiche e mala amministrazione. Questa opinione, seppure mitigata da critiche rivolte ad alcuni aspetti della personalità dell’uomo, come un eccessiva vanità e da considerazioni non certo benevole che emergono dai diari lasciati sugli abissini e su Menelik, è espressa dalla storiografia più importante del colonialismo italiano e pone soprattutto l’accento sui risultati politici ottenuti dal Martini in dieci anni di governatorato.
Senza dubbio, la presenza di un personaggio dotato di riconosciute qualità culturali e da un ottimo spirito di osservazione al vertice della struttura burocratica, contribuì a valorizzare il significato politico e sociale di un possedimento che, secondo i detrattori del tempo altro non era che “uno scoglio nel deserto” ma che invece, per molti italiani, rappresentò e continuò a rappresentare per lungo tempo un luogo di speranza e di affermazione sociale, a lungo sognata in patria. Per Martini intanto, una volta rientrato in Italia, si aprivano le porte del Ministero delle Colonie.
Francesco Della Lunga