domenica 19 aprile 2009

Notizie dall'Africa: Algeria, Bouteflika al terzo mandato

Lo scorso 9 aprile si sono svolte le elezioni per il mandato presidenziale in Algeria. Il Presidente uscente, Abdelaziz Bouteflika, si riconferma presidente per la terza volta. A cura di Francesco Della Lunga

2 commenti:

Unknown ha detto...

L'Algeria non cambia, il nuovo presidente algerino è ancora lui, il vecchio Bouteflika, al suo terzo mandato. Il presidente algerino ha però ottenuto una percentuale di voti talmente elevata, che ha fatto levare pesanti critiche dall'opposizione. Bouteflika ha ottenuto il 90,24% dei voti, una percentuale che ci fa tornare ai tempi della ex Urss e dei paesi satelliti. Louisa Hanoune del Partito dei Lavoratori ha ottenuto un brillante 4,22%. Seguono Moussa Touati del Fronte nazionale algerino (FNA) con il 2,31%. Djahid Younsi del partito islamista moderato El Islah ha ottenuto l'1,37%. Altri due candidati, Ali Fawzi Rebaine del partito nazionalista Ahd e l'islamico moderato Mohamed Said del partito Giustizia e Libertà hanno ottenuto meno dell'1%.
Bouteflika ha contribuito, negli ultimi anni, a chiudere il cruento periodo della guerra civile interna fra gli islamisti del FIS ed i governi sostenuti dai militari. E' riuscito poi a riavvicinare l'Algeria all'Unione Europea ed a riportare la calma nel paese. Ma non pare sia riuscito ancora a traghettare il paese ad una democrazia compiuta. L'Unione Europea respira, anche se secondo gli osservatori non c'erano reali rischi di vedere un'altro leader governare da Algeri.
Francesco Della Lunga

Unknown ha detto...

RI pubblica un articolo di Francesco Della Lunga, pubblicato sulla Rivista Nike, Rivista di Scienze Politiche, pubblicato nell'aprile 2005.

Aspirazioni europee, rifugio nel panarabismo o rinascita islamica? L’Algeria dei militari, fra l’islamismo radicale e l’Unione Europea.

Una prospettiva mediterranea
I recenti avvenimenti di politica internazionale hanno nuovamente portato alla ribalta la posizione degli stati africani che si affacciano sul Mediterraneo. Soprattutto dopo la guerra americana all’Iraq, si è riaccesa, da molti mesi, l’eterna disputa che da decenni contraddistingue le dinamiche politiche di questi paesi. La loro politica estera è spesso divisa da atteggiamenti contrastanti. Si parla di aspirazioni al modello europeo da un lato, con un’unione degli stati arabi, sull’esempio dell’Unione Europea come modello socio politico vincente, fino ad arrivare alla rinascita islamica dall’altro, intesa come aspirazione di una moltitudine di fedeli ad un unione basata sulla fede e sul messaggio coranico (sharia). Un campo di variazione che va da un’istituzione sovra nazionale in cui le entità statuali negoziano perdite di sovranità alla quale potrebbe forse aspirare l’Unione Africana, e, più contestualizzata alle sponde mediterranee, la Lega Araba , ad un’unione scevra da vincoli giuridici ma rinsaldata da legami religiosi. In mezzo a questi due modelli, ha trovato spazio anche il panarabismo che, portato avanti da leader carismatici soprattutto nel secondo dopoguerra rivendicava il ruolo delle nazioni arabe nel contesto del confronto Est-Ovest, fornendo una linea di condotta ai paesi non allineati, caratterizzati da una decisa vicinanza ideologica con Mosca. La religione (panislamismo), in questo periodo storico, non ha mai inciso in maniera sensibile sulle determinazioni politiche, ma se si vuole, è stata strumentalmente utilizzata dai leader arabi come cemento unificatore nei momenti di crisi, facendo peraltro attenzione a non indebolire le componenti laiche dei movimenti che li ispiravano ed ai quali si rifacevano .
Se il panarabismo ha dunque caratterizzato il periodo intercorso fra la fine del secondo conflitto mondiale alla caduta del muro, con la fine del confronto Est-Ovest è cambiata la prospettiva, ponendo al centro dell’attenzione il confronto Nord-Sud, senza che questo fosse peraltro scomparso durante il periodo di antagonismo fra l’ex superpotenza sovietica e l’unica superpotenza vincitrice, gli Stati Uniti. I rapporti fra i paesi ricchi che si affacciano sulle sponde europee del Mediterraneo da un lato e quelli, decisamente più poveri che si affacciano sulle sponde africane dall’altro, sono stati solo in parte relegati in secondo piano. Non c’è dubbio che, a partire dal novembre del 1989 ad oggi, occorra confrontarsi con nuovi scenari e, al contempo, anche con rinnovati problemi.
Fra questi vanno citati sicuramente il continuo flusso migratorio che sta coinvolgendo tutta l’area mediterranea, con un direzione univoca, dal sud a nord o, se vogliamo, dai paesi dell’Africa subsahariana e dai paesi maghrebini verso le sponde europee , ed i rapporti economici che intercorrono fra alcuni di questi paesi con l’UE, Algeria e Libia “in primis” ed in misura minore con l’altro grande paese nord africano, l’Egitto. Quest’ultimo infatti appare meno strategico per i rapporti economici ma fondamentale per gli equilibri politici di tutta l’area.
In questa situazione di continuo movimento, vengono alla luce anche altre questioni, di non minore importanza, quali le identità culturali e le difficoltà di integrazione. Se a questo si aggiungono le tensioni ed i sospetti verso le popolazioni arabe recentemente maturati dopo l’invasione statunitense dell’Iraq, il quadro si arricchisce di ulteriori elementi di complessità.
Nonostante il difficile momento storico ed i timori delle opinioni pubbliche continentali, occorre forse valutare con maggiore freddezza quali sono le spinte che oggi caratterizzano i paesi guida, sia economicamente che politicamente, di questa importante area geopolitica. Volendo porre la questione come una domanda, ci potremmo chiedere con quale modalità misurare il livello di “europeizzazione” di paesi che si affacciano sulla sponda sud del Mediterraneo perché non c’è dubbio che la storia europea, anche quella più recente, è strettamente legata a quella di questi paesi. Considerato il passato coloniale, la vicinanza con l’Italia, la Francia e la Spagna, gli interessi economici che ruotano attorno a questi paesi e le loro classi dirigenti, saremmo portati a pensare che le nazioni africane che si affacciano sul Mediterraneo, cadute in mano al “partito dell’Islam” rappresentano un potenziale pericolo per la nostra stabilità e che il contesto politico attuale tende a farci diffidare dei paesi maghrebini dai quali proviene l’afflusso più consistente di immigrazione. L’Unione Europea oggi e, nel recente passato, le potenze che nella prima metà del secolo scorso si spartivano il mondo, hanno avuto e continuano ad avere un rapporto molto intenso con le capitali nordafricane. Negli anni più recenti, Spagna, Francia ed Italia, hanno cercato di parlare con la voce dell’Unione, ma il dialogo diretto fra i governi nazionali e quelli di quei paesi che erano stati definiti “il giardino di casa” ovvero Marocco per la Spagna, Algeria e Tunisia per la Francia, Libia per l’Italia e solo parzialmente l’Egitto per la Gran Bretagna, hanno avuto ancora una volta un ruolo preponderante. Neanche i più fervidi propugnatori dell’idea dell’Unione ritengono che le istituzioni europee saranno capaci di relegare definitivamente in secondo piano gli stati nazionali, soprattutto nella politica estera, negli anni venturi. Siccome la strada appare ancora lunga, le dinamiche politiche fra le capitali e quindi il bilateralismo, avrà ancora una certa forza propulsiva.

L’Algeria: fra l’indipendenza e la dipendenza
In questo scenario così complesso, appare particolarmente interessante la posizione che riveste l’Algeria, paese che sta cercando di uscire con grande fatica dal bagno di sangue che lo ha investito negli ultimi dieci anni. Prima di arrivare ad analizzare questo periodo, al fine di tentare di individuare in che modo le dinamiche sopra individuate (immigrazione, rapporti economici, conflitto o integrazione delle culture) si stanno indirizzando, è forse opportuno ricordare sommariamente qual è stato il percorso svolto dall’Algeria, dall’indomani della lotta per l’indipendenza nazionale (1962), per capire se anche i dirimpettai europei, possono reputarsi, in qualche modo, responsabili di quello che è accaduto.
Questo perché l’Algeria è stata forse il paese che ha avuto l’instabilità politica più forte, rispetto ai propri confinanti. Gli stati limitrofi infatti, hanno avuto un passato recente relativamente stabile come il Marocco, uscito per adesso, senza grossi scossoni dal passaggio fra il vecchio monarca, Re Hassan II, al figlio Sidi Mohammed. La Tunisia di Zin el Abdin Ben Ali appare essere stabilizzata e così anche l’Egitto di Hosni Mubarak, anche se questo paese risente in qualche modo della prossimità con la turbolente area mediorientale e la vicinanza ad Israele. La Libia, pur in un contesto di stabilizzazione politica interna che dura da oltre trent’anni in seguito al colpo di stato di Muhammar Al Gheddafi che, nel 1969, depose il vecchio sovrano Senussita, Re Idris, è stata per molto tempo sottoposta ad un embargo economico decretato dalla Comunità Internazionale a causa degli attentati terroristici avvenuti sui cieli di Lockerbie in Scozia, nel 1985, e ad essa attribuiti. L’embargo è cessato da poche settimane, dopo una serie di aperture del leader libico verso l’Unione Europea ed “incoraggiate” dal Presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, il maggior propugnatore, nel recente passato, delle sanzioni nei confronti di Tripoli. L’Algeria è invece precipitata nella violenza politica, nell’isolazionismo e nel caos. Questo grande paese è forse il caso più complesso, ma anche più ricco di spunti, sia per l’aggravarsi della situazione politica, sfociata in una vera e propria guerra civile dal 1991 ad oggi, causata dalla vittoria del FIS (Fronte Islamico di Salvezza) alle elezioni legislative a danno del Fronte di Liberazione Nazionale di fatto il partito unico al potere dal 1962, sia per la rilevanza economica che questo paese ha verso l’UE e fondamentalmente verso uno dei suoi paesi fondatori, la Francia.
Se poi si considerano le relazioni economiche che intercorrono fra Algeri ed il nostro paese, ci accorgiamo che anche l’Italia è abbastanza sensibile ai suoi accadimenti politici. Infatti, sebbene il paese di maggior interscambio rimanga ancora la Francia i cui prodotti rappresentano il 25% delle importazioni algerine, la Spagna rappresenti il secondo partner con il 12% e gli USA con l’11%, Roma partecipa alla bilancia commerciale di Algeri con l’8% delle importazioni. Ma se si rovescia la medaglia e si guarda invece a cosa importa l’Italia dall’Algeria, ci accorgiamo che circa la metà delle esportazioni di prodotti energetici di Algeri, l’elemento trainante dell’economia nazionale, arriva proprio nel nostro paese. La nostra dipendenza è dunque ben maggiore rispetto a quella del nostro fornitore; peraltro, gli algerini preferiscono importare anche dai paesi dell’ex blocco sovietico con i quali mantengono ancora dei rapporti abbastanza forti. Se si considerano anche le difficoltà relazionali che fino a ieri avevano caratterizzato i rapporti fra il nostro governo e quello libico, altro grande produttore di greggio , non è difficile immaginare che Roma abbia cercato, anche con successo, di allargare le forniture di prodotti energetici rinsaldando i rapporti con il governo algerino.
Oggi Algeri è ancora di fronte ad una situazione di sostanziale instabilità, connotata da recrudescenze del terrorismo islamico e dalle continue difficoltà economiche, nonostante le ricchezze derivanti dallo sfruttamento petrolifero. La disoccupazione è ancora elevata ed abbraccia una ingente fascia della popolazione. I rapporti con la Francia continuano ad essere controversi, sospesi fra la voglia di emancipazione e quella di mantenere un rapporto amichevole. La frustrazione delle classi più povere, duramente colpite dall’instabilità politica e dalla difficile congiuntura economica, ha spinto i giovani verso posizioni estremiste, fino ad ingrossare le fila del terrorismo islamico. Si è spesso affermato che l’interventismo europeo nel passato di questi paesi e la perdurante incapacità di risolvere i problemi e l’impossibilità di generare, in poco tempo, il miraggio della ricchezza così diffusa sull’altra sponda, hanno favorito la nascita di un contrastante senso di frustrazione e di rivalsa. E’ molto diffusa l’opinione che l’islam più radicale abbia avuto buon gioco nell’infiltrare, fra le file di immigrati, soggetti pericolosi e vicini ai principali gruppi terroristici. Il sentimento di rivalsa, sfociato talvolta in un sentimento di odio, favorito dall’attuale contesto politico con la guerra fra Iraq e Stati Uniti, appare, in qualche modo, dimostrato da fatti di cronaca come quelli che hanno colpito Madrid in maniera clamorosa; peraltro, anche le polizie europee ed i servizi di sicurezza, spesso chiamati in causa dall’opinione pubblica, hanno dimostrato l’esistenza di una rete terroristica potenziale che sarebbe diffusa nelle principali città dell’Europa continentale. Ma questa non è che una parte della realtà dell’Islam contemporaneo, e forse, neppure quella più rilevante.
Un piccolo flash sulle ultime elezioni presidenziali: con quasi l’85% delle preferenze, Abdelaziz Bouteflika si è riconfermato presidente della repubblica alle elezioni del 2004. La sua politica di pacificazione interna ha fatto ulteriori passi avanti (le vittime degli attentati e degli scontri tra i gruppi fondamentalisti islamici e le forze armate si sono quasi dimezzate nell’ultimo anno) e qualche risultato positivo è stato ottenuto anche sul piano economico.

La cesura del 1991: la parabola del FIS
Tutto questo sottintende però un paese ancora alle prese con una profonda crisi politica interna, iniziata nel 1991 quando alle elezioni politiche il Fronte Islamico di Salvezza (FIS) ottenne la maggioranza alle elezioni legislative. Il timore che la vittoria del FIS potesse portare ad un regime fondamentalista indusse però il governo uscente a lasciare le briglie sciolte ai militari che imposero il divieto di svolgimento del secondo turno.
Il FIS venne dunque bloccato nella sua ascesa al potere, ma. da allora è iniziata una sanguinosa guerra civile il cui culmine ha abbracciato i cinque anni successivi (1993-1997).
Per tentare di comprendere le ragioni di un conflitto così cruento, occorre forse domandarsi che cosa volesse realmente il FIS e che cosa esso rappresentasse. Perché lo scontro è stato così duro? Possono venirci in aiuto, nel tentativo di dare una risposta, alcuni argomenti esposti da osservatori vicini al mondo islamico che riportano sostanzialmente le posizioni assunte dai principali leader politici del FIS. Non c’è dubbio che queste dichiarazioni lasciano poco spazio alle interpretazioni, tenuto conto della durezza che esprimono. Infatti, secondo quanto riportato da Abdennour Benantan Il FIS intende perseguire la conquista del potere con ogni mezzo, compreso la violenza, che potrà giustificarsi per raggiungere i seguenti obiettivi: l’assassinio di membri delle forze dell’ordine, di politici e di intellettuali; l’assassinio di stranieri residenti in Algeria; la distruzione dell’infrastruttura del paese. Queste dichiarazioni, appaiono a tutti gli effetti una dichiarazione di guerra al regime militare. Se poi si osserva quello che avviene successivamente alla vittoria delle elezioni, non c’è dubbio che l’escalation verso la guerra civile è inarrestabile. Il FIS sembra effettivamente orientato a disintegrare la struttura politico-sociale che ha retto l’Algeria dagli anni dell’indipendenza. Non si fanno sconti a coloro che rivestono posizioni di potere, com’è logico nella perversa logica della guerra, ma mentre l’omicidio di militari può essere un epilogo “normale”, appare brutale la decisione di uccidere tutti coloro che sono vicini al potere, e perfino gli intellettuali. Una guerra senza quartiere dunque e, come molte guerre civili, senza nessuna regola. Con questa durissima strategia il FIS punta a disgregare i quadri dell’esercito algerino, creando delle sacche di resistenza contro le gerarchie, ad uccidere gli intellettuali per isolare eventuali sacche di consenso interne, ad uccidere anche gli stranieri per isolare il regime sul piano internazionale. L’ultimo obiettivo pare anch’esso tipico di una guerra condotta con le regole degli eserciti, sebbene il FIS entri da allora nella clandestinità: si punta infatti a distruggere tutte le principali infrastrutture del paese e le aziende che lavorano nell’estrazione del greggio e delle risorse naturali. Un ulteriore tentativo di rafforzare l’isolamento del governo algerino nei confronti dei paesi esteri. Il generale Liamine Zeroual prende il potere all’indomani del divieto di svolgimento del secondo turno ed i generali, da allora, risponderanno colpo su colpo alle violenze che si propagano per tutto il paese. Ma la guerra condotta dal FIS diventa ancora più sanguinaria quando, dagli obiettivi politici, si passa a quelli civili. I principali quotidiani di quel periodo hanno riportato quasi incessantemente un numero impressionante di assassinii fra la popolazione civile. Come è stato possibile arrivare a quella che, secondo molti corrispondenti esteri è stata una vera e propria barbarie? Occorre fare ancora una volta un piccolo passo indietro.
Nel 1989, il FIS, inizia ad avere un peso sempre più crescente fra la popolazione di Algeri e del suo entroterra. Le ragioni di questa ascesa quasi irresistibile sono da addebitare a due fenomeni prevalenti: il sentimento di frustrazione di gran parte della popolazione ancora alle prese con una pesante crisi economica e l’incapacità del Fronte di Liberazione Nazionale di dare delle risposte e numerosi fenomeni di corruzione e di malgoverno che coinvolgono da tempo il potere . Le prime avvisaglie iniziano nel 1988, in seguito a manifestazioni di piazza volte a protestare contro un programma di austerità varato dal governo che provoca la penuria di alcuni beni di prima necessità. Per bloccare le proteste, il Presidente Boudjadid decide l’invio dei militari contro la popolazione. La protesta si trasforma in una tragedia con scontri e numerose vittime tra i dimostranti. Secondo questi ultimi ci sarebbero state almeno 600 vittime, mentre secondo l’esercito e la polizia le vittime sarebbero state assai più basse. Ma con questo episodio la miccia, già pronta ad accendersi si accorcia sempre di più e diventa una vera e propria esplosione nel momento in cui vengono fissate le prime vere elezioni democratiche dall’anno dell’Indipendenza (1962). Il FIS ha evidentemente buon gioco nel fare ulteriore proselitismo. Nel luglio 1991 si tiene il primo turno delle elezioni politiche e, nonostante la forte astensione, il FIS erompe con forza nella politica nazionale . Il FIS conquista 188 dei 430 seggi a disposizione con una percentuale del 47.54% dei voti. Il Fronte di Liberazione Nazionale perde clamorosamente le prime elezioni democratiche che vengono però immediatamente “strozzate” . Boudjadid è costretto alle dimissioni dai militari che decidono di esautorare il FLN. Viene varato un “Consiglio Nazionale di Sicurezza”, organismo teoricamente politico ma di fatto controllato dai militari che eleggono alla Presidenza della Repubblica l’ex generale Liamine Zeroual con il governo algerino che rifiuta ogni forma di coinvolgimento della comunità internazionale. Nel paese viene introdotto lo stato di emergenza fino al dicembre 1993. Non c’è ulteriore spazio per la mediazione, fino ai fatti del gennaio 1995, con la Piattaforma di Roma. In questi anni si assiste ad una serie impressionante di omicidi che iniziano a coinvolgere, sempre di più, la popolazione civile, fino ad allora simpatizzante del FIS. Il conflitto diventa sempre più cruento ed è sempre più difficile attribuire le responsabilità di questi eccidi. Se all’inizio del conflitto quasi tutti i paesi europei si schierano contro gli islamisti, dopo alcuni mesi dall’inizio delle ostilità anche l’atteggiamento del regime militare inizia a suscitare dei sospetti. Quello che balza agli occhi degli osservatori e dei governi europei è tuttavia il comportamento dell’esercito algerino che appare, in certi frangenti, assente se non addirittura partecipe, almeno politicamente, agli eccidi condotti dai GIA (Gruppi Islamici Armati, braccio armato del FIS). Alcuni osservatori si spingono addirittura a sostenere che il regime “agevolerebbe” gli eccidi, senza intervenire, al fine di fiaccare il FIS e di far cessare l’influenza di quest’ultimo sulla popolazione che lo ha fino ad allora sostenuto. In questo contesto caotico e controverso vi sono stati numerosi tentativi di ricomporre la frattura generatasi, ma a nessun governo straniero e neppure alle istituzioni internazionali, ONU in testa ed UE poi, è stato permesso di intervenire nel conflitto. Ogni tentativo è sempre stato frustrato dal regime militare che ha accusato a più riprese sia il Palazzo di Vetro che Bruxelles di intromettersi negli affari interni di uno stato sovrano. Stessa sorte è toccata alle capitali europee, quando hanno tentato di agire a livello unilaterale, o comunque indipendentemente dalle istituzioni comunitarie. Naturalmente, per le ragioni a cui accennavamo sopra, l’Unione Europea ed i paesi che si affacciano sul Mediterraneo hanno un forte interesse affinché la situazione algerina venga normalizzata. In questi anni ci hanno provato un po’ tutti, ma il risultato finale è stato modesto: la Francia è rimasta defilata, la Spagna ha fatto qualche timido tentativo, il nostro Paese ha vissuto un periodo di conflittualità con Algeri, a causa dell’accordo patrocinato dalla Comunità di Sant’Egidio a Roma e siglato fra tutti i partiti politici nel lontano 1995. I risultati immediati di questi sforzi hanno portato ad un isolamento sempre più forte del governo algerino che ha bloccato i numerosi tentativi della comunità internazionale di vedere chiaro sulla feroce guerra civile che è scoppiata e sui numerosi assassinii fra la popolazione civile. Il regime militare è stato accusato da più parti, soprattutto per l’incapacità di bloccare le aggressioni rivendicate da alcuni gruppi islamici, primo fra tutti il GIA. I dubbi dell’Unione Europea sono diventati sempre più forti di fronte ad un tale bagno di sangue, ma occorre anche dire che Bruxelles non è stato capace di portare avanti un’azione diplomatica efficace, collezionando così il secondo fallimento diplomatico dopo quello dell’ex Jugoslavia. Così la situazione si è aggravata ulteriormente. Dall’inizio degli scontri a quello che è passato sotto il nome di “Piattaforma di Roma” condotto sotto gli auspici della Comunità di Sant’Egidio, sono stati contati almeno 35.000 morti fra i civili algerini. L’accordo siglato a Roma, nel gennaio del 1995, dopo più di tre anni di scontri, aveva suscitato grandi speranze, anche fra la popolazione algerina. La “Piattaforma”, è stato a lungo l’unico documento politico che rappresentava una via d’uscita diversa dall’opzione militare. Era un accordo siglato dai responsabili dei partiti politici algerini più rappresentativi, fra quelli che avevano partecipato alle elezioni del 1991: il Fronte Islamico di Salvezza (FIS), il Fronte di Liberazione Nazionale (FLN), il Fronte delle Forze Socialiste (FLS), Il Movimento per la Democrazia Algerina (MDA), il Partito dei Lavoratori (PT) e due partiti islamisti moderati oltre alla Lega Algerina di Difesa dei Diritti Umani . Questo documento voleva essere un’offerta di pace portata dai partiti politici al regime militare. Ma questo accordo è stato da subito rifiutato dal governo. L’Italia, nella cui capitale era stato siglato, ma anche Francia e Unione Europea, hanno cercato a lungo di spingere Algeri verso la soluzione negoziale. Ma senza alcun risultato significativo. Di fatto, sia il presidente Zeroual prima, ma anche il suo successore Bouteflika poi, hanno sempre parlato di sporadici attacchi condotti da terroristi islamici minimizzandone la portata.
Alla fine del 1997 e per tutto il 1998, i massacri fra la popolazione civile riprendono di intensità. Sono anche gli anni in cui, l’Unione Europea, la Francia ma anche l’Italia, fanno qualche passo verso l’apertura di trattative fra gli islamisti del disciolto FIS ed il regime militare. Si tratta però di passi che non spostano più di tanto il regime di Algeri. Anzi, a fronte di precise richieste di negoziato e di intervento da parte delle Nazioni Unite, il regime risponde duramente, richiamando, ancora una volta, il principio della “non ingerenza”. L’atteggiamento francese, nonostante cerchi di assumere toni distaccati, è quello più osteggiato, considerando il recente passato che ha contraddistinto i due paesi. Non così però per quanto riguarda la posizione italiana che, rifacendosi anche alla Piattaforma, cerca di favorire nuovamente la mediazione. Ma né Jospin e Chirac per la Francia e tanto meno Dini e Prodi per l’Italia hanno successo. Il contenzioso con il nostro paese si inasprisce di fronte ad alcune dichiarazioni dei nostri uomini di governo; si arriva addirittura al richiamo dell’ambasciatore italiano ad Algeri, da parte del governo sostenuto da Zeroual . Gli Stati Uniti, sotto la presidenza Clinton, dal canto loro, cercano una soluzione negoziale alla crisi interna allo stato africano; il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, interviene più volte sulla situazione algerina, ricevendo, a sua volta, le critiche del regime. Insomma, dopo molti anni, sembra che la comunità internazionale si svegli dal letargo e cerchi di capire che cosa accade realmente in Algeria. Nessun dubbio sulle violenze del FIS, molti dubbi invece sull’operato del regime militare che appare incapace di frenare la spirale di violenza, se non di favorirla. Si citano alcuni episodi particolarmente violenti che colpiscono l’opinione pubblica europea: il 29 agosto del 1997, nel villaggio di Sidi Rais, a sud di Algeri, vengono massacrate 300 persone. Neppure di fronte ad un fatto che richiede diverse ore di tempo per poter essere compiuto, si segnala l’intervento dell’esercito. I tentativi condotti dalla comunità internazionale, approdano al nulla. Nel 1998 continuano i tentativi di favorire una soluzione negoziale al conflitto. Nuove prese di posizione degli Stati Uniti, che appoggiano l’istituzione di una commissione d’inchiesta avanzata da Amnesty International provoca un ulteriore irrigidimento del governo algerino. Si rinnovano gli appelli francesi ed italiani, ma anche in questo frangente non si ottengono aperture. Nel 1998, fonti indipendenti dichiarano che dal 1991, i morti della guerra civile arrivano a 80.000.

La difficile partita di Bouteflika
Le elezioni presidenziali dell’aprile 1999 consegnano ad Abdelaziz Bouteflika la presidenza dello stato maghrebino. Si tratta del primo presidente non militare dalla data dell’indipendenza. Qualcosa pare essere cambiato negli ultimi mesi, soprattutto a giudicare dal come viene condotta la campagna elettorale. Vi sono innanzitutto diversi candidati, espressione di un rinnovato pluralismo. Peraltro, gli stessi candidati, in prossimità delle elezioni rinunceranno e denunceranno episodi di forte pressione condotti dai militari a favore del candidato definito dalle opposizioni “del consenso”. Nonostante la rinuncia e nonostante la vittoria scontata di Bouteflika con circa il 70% dei suffragi su una partecipazione al voto del 20% degli aventi diritto, si notano delle aperture di non poco conto. Innanzi tutto il clima che ha preceduto la votazione: sono riapparsi comizi nelle piazze, si è parlato spesso di pace e di riconciliazione. Lo stesso presidente si è speso in pubblico con dichiarazioni di questo tenore. Per queste ragioni viene definito il candidato “del consenso”, un attribuzione che per le opposizioni suona come un vero e proprio disvalore. Ma il nuovo presidente appare deciso a creare un clima di effettiva riconciliazione nazionale. Vi sono alcuni presupposti che potrebbero facilitarlo, primo fra tutti la decisione unilaterale presa dal FIS nel 1997 di decretare il temporaneo abbandono della lotta armata. Poi lo stesso atteggiamento dei militari che appare più orientato ad una soluzione compromissoria. Bouteflika viene dipinto come un uomo che desidera riportare l’Algeria ai fasti di un tempo, quando, durante il boom economico dovuto allo sfruttamento delle risorse petrolifere, era considerata uno dei paesi faro della sponda africana del Mediterraneo. Per perseguire questo obiettivo occorre agire secondo due direzioni: da un lato raffreddare lo scontro interno fino a raggiungere una sostanziale pacificazione fra le due fazioni in lotta; dall’altro riaprire il paese verso la comunità internazionale, con il tentativo di giocare un nuovo ruolo fra le nazioni dell’area, ivi compreso l’Unione Europea, abbandonando gradualmente l’isolazionismo imposto dai militari. In soli due mesi dalla vittoria delle elezioni, con i partiti propugnatori dell”eradication” fra cui il Fronte di Liberazione Nazionale ed il partito fondato da Liamine Zeroual, il RND (Rassemblement National pour la démocratie) che lo sostengono ma che sono allo stesso tempo fortemente contrari alla pacificazione, Bouteflika riesce a portare avanti il programma. Nel suo primo discorso da presidente afferma che “priorità delle priorità è il ritorno alla pace civile, che condiziona tutto il resto” e più avanti, tornando sul ruolo dell’esercito afferma che “l’esercito non è un corpo estraneo alla nazione, se necessario potrà essere consultato ma non avrà potere di decisione al riguardo” . Un notevole cambio di prospettiva, se si pensa che solo pochi mesi prima si era consumato il peggiore degli eccidi condotti in questa lunga guerra. Bouteflika torna a parlare ancora della Piattaforma di Roma come un presupposto da cui poter ripartire; anche quest’ultimo tabù nazionale appare essere superato. La politica di pacificazione prosegue con vigore e ben presto si giunge ad un accordo con il disciolto partito del FIS che chiede, in cambio della pacificazione, il reintegro degli ex guerriglieri nella società algerina. La “concordia nazionale” prosegue dunque abbastanza speditamente, contando sull’euforia che può reggere i leader politici soltanto in determinati passaggi storici, con l’assunzione di responsabilità e di decisioni fino ad allora impraticabili. Un esempio di questo passaggio potrebbe essere oggi quello che sembra profilarsi dal mai cessato conflitto israelo-palestinese, con il primo ministro israeliano Ariel Sharon pronto al negoziato con il nuovo presidente palestinese Abu Mazen: una prospettiva impensabile, solo poche settimane fa, con il fantasma di Arafat racchiuso nella sua Mukata. Chiuso l’inciso, e tornando alla “concordia nazionale”, il leader algerino, una volta stabilizzato il fronte interno, inizia a rivolgere lo sguardo oltre confine. Il dodici luglio del 1999 il Presidente può dedicarsi al vertice dell’Organizzazione per l’Unità Africana (OUA), con l’intento di rilanciare il suo paese agli occhi della comunità internazionale. Del resto, Bouteflika non è proprio l’ultimo arrivato nelle questioni diplomatiche: è stato il più giovane ministro degli esteri (nominato per la prima volta a 26 anni) e rimasto in carica per 16 anni di fila. In quell’occasione il Presidente mette a segno il primo colpo diplomatico, riuscendo a favorire un primo documento di pace fra Eritrea ed Etiopia. E’ questa l’Algeria che sogna Bouteflika: cardine della politica africana e rispettata all’estero. I segnali incoraggianti vengono prontamente recepiti dall’altra sponda del mediterraneo: vengono ripristinati i collegamenti aerei con Algeri da parte dell’Italia, Francia e Spagna. Iniziano le visite dei ministri per preparare quelle ad alto livello, con i capi di governo. Un ulteriore occasione per rafforzare la nuova immagine dell’Algeria all’estero scaturisce all’indomani della morte del Re Hassan II del Marocco, presso la cui capitale Bouteflika si precipita, nonostante le non facili relazioni fra i due paesi. Un ulteriore segnale di distensione è dato dall’incontro che avrà, di lì a poco, con il capo del governo israeliano, Ehud Barak. L’offensiva diplomatica di Bouteflika, all’indomani delle elezioni presidenziali appare inarrestabile: l’Unione Europea è pronta a rivedere il proprio atteggiamento nei confronti di Algeri, confidando nella pronta riuscita della “concordia nazionale”. Le ferite degli anni passati non tardano però a riemergere: la crisi economica che non accenna ad alleggerirsi, la frustrazione dei giovani algerini, la ripresa della violenza che cova sotto la cenere. La politica estera, d’altro canto, appare quella dove il Presidente riesce ad ottenere i maggiori consensi. Si tenta in tutti i modi di trovare una strada che porti ad un’emancipazione più forte nei confronti della Francia verso la quale il paese ha ancora un legame di subalternità, dovuto essenzialmente dall’entità dell’interscambio commerciale. L’emancipazione dalla Francia, rappresenta sempre, per la classe politica al potere, un elemento capace di ricompattare in qualche modo la popolazione. La spinta nazionalista, nonostante i disastri degli anni recenti, ha ancora una qualche presa sui cittadini, a detta del governo algerino. Per questa ragione, Bouteflika compie un forte avvicinamento agli Stati Uniti, all’indomani degli attentati dell’11 settembre 2001 al WTC di New York. La posizione algerina, di fronte al massacro che sconvolge l’America è di “simpatia verso il popolo americano”. Secondo alcuni analisti politici, la scelta di Bouteflika sarebbe stata dettata dal tentativo, come sopra accennato, di creare una sorta di relazione strategica con gli Stati Uniti, e quindi una relazione che potrebbe portare qualche vantaggio in una logica di medio lungo periodo . Peraltro, questa opportunità sarebbe anche sfruttata dal regime militare che cercherebbe di giustificare così dieci anni di guerra civile agli occhi della comunità internazionale, esorcizzando il pericolo del radicalismo islamico e del terrorismo di matrice religiosa. E comunque, l’obiettivo principale rimarrebbe quello di instaurare una relazione privilegiata con il governo di Washington al fine di emanciparsi definitivamente dal rapporto che lega ancora il paese con la Francia. Quale occasione migliore soprattutto anche alla luce delle incomprensioni politiche che caratterizzano in questa fase Parigi e Washington? Se la politica diplomatica sembra aprire nuovi scenari per un ritorno in prima linea dello stato algerino, il tentativo di pacificazione condotto da Bouteflika appare però contraddistinto da luci ed ombre. Da un lato infatti, non c’è dubbio che i passi compiuti per stabilizzare il fronte interno abbiano dato dei risultati soddisfacenti: la violenza è cessata in maniera sensibile, gli omicidi sono diminuiti, e da gennaio alla fine di settembre 2001, secondo le statistiche della polizia algerina, ci sarebbero stati circa mille morti, di cui 531 persone uccise nel corso di veri e propri massacri. Questi numeri, seppur impressionanti, sarebbero molto lontani da quelli raggiunti nel periodo più cruento della guerra civile (1997-1998). Il ministro dell’interno, sempre alla fine del 2001, dichiara che ci sarebbero soltanto 400 attivisti armati sostenuti da 800 civili. Ma mentre il Presidente algerino starebbe conseguendo degli importanti risultati sul fronte della guerra al terrorismo e sul fronte della pacificazione interna, vi sarebbero altri problemi da risolvere, i più gravi dei quali a livello sociale, con la crisi economica sempre in primo piano ed un tasso di disoccupazione altissimo pari a circa il 30% della forza lavoro . Anche lo scontro politico interno sembra assumere una nuova direzione che va oltre la lotta agli islamisti perché adesso la questione del rapporto che lega Bouteflika al regime militare si fa stringente. E’ ormai chiaro che Bouteflika vorrebbe affrancarsi dal controllo dei militari che, pur rimanendo sullo sfondo, continuano ad esercitare un controllo pesante sulla vita politica del paese. Si tratta dunque di due lotte molto difficili da combattere. Per quanto riguarda la prima, si segnalano già alcune rivolte fra la popolazione, stavolta non riconducibili al disciolto FIS o ad partiti islamisti radicali, bensì alla popolazione bèrbera, vicino alle posizioni di alcuni partiti conservatori. La rivolta della Cabilia è scoppiata infatti nell’aprile 2001 dopo che uno studente era stato ucciso in una caserma di gendarmi. Vi sono stati numerosi tumulti che hanno portato alla formulazione di richieste politiche forti, primo fra tutte l’indipendenza della Cabilia. Questa ulteriore esplosione di violenza, dimostra ancora una volta che il paese non è uscito dalle tensioni che lo hanno caratterizzato negli ultimi dieci anni. Peraltro, la presenza dei militari vicini al potere, induce la popolazione a nutrire ancora sfiducia nei confronti del ceto politico e questo non favorisce la riconciliazione. Un ulteriore elemento di distacco dal potere politico è avvenuto all’indomani delle inondazioni che hanno colpito uno dei quartieri più popolosi di Algeri, il 10 novembre del 2001. Questo quartiere, caratterizzato da una soglia di povertà elevata e dalla forte presenza di disoccupazione giovanile, è stato una roccaforte del disciolto FIS. Ancora oggi molti simpatizzanti islamisti vi hanno trovato rifugio. Ma il sentimento comune di distacco dal potere e di forte delusione, può nuovamente convogliarsi verso la rinascita di quelle simpatie politiche che nel 1991 portarono alla vittoria del FIS. Peraltro, il mancato intervento del governo, all’indomani di questo evento che ha colpito duramente la popolazione, non fa fatto altro che allargare il fossato fra i cittadini e le istituzioni politiche. Bouteflika, dopo questo disastro naturale, ha parlato alla radio nazionale di “catastrofe da imputare alla volontà divina” e, durante un sopralluogo sul posto è stato aspramente contestato dalla popolazione. Una dimostrazione che i problemi interni da risolvere sono ancora molto forti e sentiti, nonostante l’abile diplomazia condotta a livello internazionale, volta a presentare un’immagine nuova del paese. Ciò nonostante, e siamo a tempi più recenti, il Presidente algerino viene confermato alle elezioni presidenziali del 2004. Il programma è sempre lo stesso; rispetto a quando ha iniziato il suo percorso, l’ex ministro degli esteri di Boumedienne è riuscito a conseguire degli indubbi successi, soprattutto a livello internazionale. Rimane ancora molto da fare sul piano interno, soprattutto la rinascita di una vera concordia nazionale, la definitiva sconfitta del terrorismo islamico, che nel contesto allargato della lotta mondiale al terrorismo lanciata dagli Stati Uniti riesce ancora a farsi sentire con la formazione di nuovi gruppi armati , la tanto agognata ripresa economica.

Un paese ancora in bilico
E così, dopo oltre dieci anni dall’inizio della guerra civile, l’Algeria sta iniziando a sperare di aver risolto, seppure solo in parte, i suoi problemi. L’avvento di Bouteflika al potere ha indubbiamente ridato un po’ di coraggio ad una popolazione sempre più stanca della guerra e priva di prospettive. Ma per aprirne di nuove, il lavoro del presidente algerino è ancora lungo ed irto di difficoltà. Fra i numerosi problemi da risolvere rimangono quello della disoccupazione giovanile, che alimenta il malcontento popolare con le ricadute oramai conosciute, la violenza politica da un lato, la ripresa del fondamentalismo dall’altro, e l’emigrazione. Da un punto di vista politico invece, se da un lato il paese è riuscito a sfuggire all’isolamento, dall’altro occorre ricostruire un rapporto con l’Unione Europea considerato che da Bruxelles potrebbe arrivare un contributo rilevante per la ripresa economica. C’è infatti da tener presente che l’economia dell’UE da diversi anni, sta subendo una fase di profonda trasformazione dovuta alla stagnazione economica. In virtù di questa trasformazione, il baricentro dell’economia dell’Unione si sta spostando sempre di più verso est, con il fenomeno dell’internazionalizzazione delle imprese che trasferiscono le proprie unità produttive verso quei paesi che offrono un mercato del lavoro più vantaggioso. Ma l’area mediterranea potrebbe offrire nuove opportunità soprattutto per quei paesi che si affacciano sulle sue sponde. Il maghreb, ancora una volta, appare tagliato fuori da questa “ricollocazione” dell’economia dell’Unione. L’Algeria, per il suo recentissimo ed attuale passato, appare molto più svantaggiata rispetto ai paesi confinanti, se si parla di opportunità economiche che potrebbero arrivare da un rapporto più intenso con l’Europa. Ma per poter arrivare ad una situazione di “proficua collaborazione” occorre la stabilizzazione interna. Ed il paese appare ancora abbastanza lontano dal raggiungimento di questo obiettivo. Rimangono poi sullo sfondo i rapporti con l’ex potenza coloniale, la Francia. Ma il rafforzamento delle istituzioni comunitarie ed il conseguente arretramento della forza degli stati nazionali potrebbe contribuire a facilitare i rapporti con l’Algeria. Anche l’emigrazione, invece di essere considerata come una minaccia, potrebbe essere ritenuta un’opportunità per integrare paesi e culture che si affacciano sullo stesso mare o quantomeno per comprendersi meglio. Il riavvicinamento agli Stati Uniti condotto negli ultimi anni da Bouteflika piuttosto che allargare di nuovo il fossato, può contribuire a riavvicinare l’Algeria anche all’Unione Europea, considerando il recentissimo viaggio di Bush nelle capitali dell’Unione. Tornando alla domanda iniziale, il paese sembra tentato ad un riavvicinamento all’Europa, ma le forze che partecipano al ripensamento algerino sono ancora troppo eterogenee. Un paese ancora in bilico, alla ricerca di una precisa identità.
Francesco Della Lunga